Le scienze biomediche tra biologia molecolare e complessità

Lo sviluppo delle teorie scientifiche – e delle loro applicazioni mediche – non si svolge secondo una traiettoria lineare, in continua ascesa, fatta semplicemente dall’aumento di conoscenze che vanno a stratificarsi sulle precedenti. La storia insegna, piuttosto, che il progresso della scienza presenta, in determinate epoche, delle discontinuità, delle crisi, in cui non vengono semplicemente fatte nuove scoperte o vengono messe in discussione singole convinzioni, bensì in cui tutta l’impostazione del sapere scientifico viene rivista. Oggi siamo all’interno di uno di questi momenti storici di cambiamento, in cui si notano molti segni di quello che viene chiamato “cambiamento di paradigmi”. Qui si usa il termine “paradigma” nel senso usato dallo storico della scienza T. Kuhn, il cui modello epistemologico è oggi uno dei più accreditati [Kuhn, 1962; Arecchi and Arecchi, 1990]. I paradigmi sono insiemi omogenei di assunzioni teoriche, di metodi di lavoro, di pratiche sperimentali, di linguaggi e modi di trasmissione del sapere (riviste, congressi, ecc…). I paradigmi costituiscono, in altre parole, l’ambiente culturale e tecnologico all’interno del quale il ricercatore guarda alla realtà e progetta gli esperimenti, il finanziatore giudica la realizzabilità e l’utilità dei progetti stessi, il medico valuta l’utilità e l’opportunità di determinati interventi terapeutici. Tale ambiente influenza e condiziona coloro che operano al suo interno, i quali, a loro volta, contribuiscono a formare l’ambiente stesso.
Oggi la scienza fondata da Galileo, Cartesio e Newton è profondamente in crisi e tale crisi, partita dalla fisica, si sta trasferendo rapidamente anche alle discipline biologiche. Molti fattori hanno contribuito a provocare questo mutamento di prospettiva. Innanzitutto, cresce sempre più la consapevolezza del fatto che man mano che la scienza è progredita, si è suddivisa in campi sempre più specialistici, in settori che spesso per forza di cose sono divenuti scarsamente comunicanti. Quindi, in un certo senso esistono più scienze (scienze naturali, matematiche, fisiche, umanistiche, mediche, sociali, ecc…). Il sogno di una “Scienza” interprete sommo e unico, esatto, della realtà pare quindi allontanarsi anziché avvicinarsi.
La fisica e la matematica si sono rivelate scienze meno “esatte” di quanto in precedenza ritenuto: fisici come Einstein, Planck e soprattutto Heisenberg hanno mostrato come certezze scientifiche apparentemente inattaccabili si siano rivelate quanto meno inesatte e che, anzi, alla certezza scientifica siano posti grossi interrogativi sia in relazione alle incertezze quantiche che all’imprecisione degli strumenti di misura e persino alle incompletezze delle elaborazioni matematiche (v. teorema di Godel). A ciò si aggiunga il grande sviluppo della teoria del caos, con le sue implicazioni nei sistemi fisici, matematici e geometrici [per una rassegna su quest’ultimo argomento, vedi Bellavite et al., 1995].
Scrivono i fisici Nicolis e Prigogine: “Il nostro universo fisico non ha più come simbolo il moto regolare e periodico dei pianeti, moto che è alla base della meccanica classica. E’ invece un universo di instabilità e fluttuazioni, che sono all’origine dell’incredibile ricchezza di forme e strutture che vediamo nel mondo intorno a noi. Abbiamo quindi bisogno di nuovi concetti e nuovi strumenti per descrivere una natura in cui evoluzione e pluralismo sono divenute le parole fondamentali” [Nicolis and Prigogine, 1991]. Questa frase esemplifica e riassume il senso del cambiamento di paradigma che sta avvenendo nella fisica e che quindi, con varie modalità e tempi difficili da prevedere, avrà riflessi anche sulle discipline biologiche e mediche [Cramer, 1993; Mainzer, 1994].
Nella storia della medicina si può osservare il succedersi di paradigmi molto diversi tra loro. Innanzitutto si nota come nell’antichità (ed ancor oggi tra i popoli primitivi), mancando conoscenze certe sulla natura dei processi patologici, la medicina viene prevalentemente esercitata in stretta relazione alla mitologia, alla magia o alla religione: le malattie sono viste come castighi mandati dagli dei, i medici sono anche guaritori, stregoni o sciamani. Anche nella medicina cinese e nelle altre medicine orientali, il paradigma dominante è extra-scientifico, è costituito di una serie di “regole” interpretative basate sulla filosofia (ad. es. il “Tao”) e derivate, per analogia, dalla osservazione del cosmo: si applicano al vivente concetti quali caldo/freddo, sole/luna, terra/acqua, ecc… A sostenere lo sforzo terapeutico è più la coscienza della necessità di trovare una “armonia” con i ritmi del cosmo che un’analisi razionale delle componenti in gioco. Fino alla fine del medioevo, la pratica della medicina non si discosta molto da tali vedute.
Anche se si devono registrare alcuni notevoli tentativi di fondare la medicina sulla osservazione dei fenomeni naturali, sul ragionamento, sull’esperimento (basti pensare a personaggi come Ippocrate, Celso, Galeno, Paracelso), la medicina per molti secoli resta ancorata a una serie di precetti empirici, soggetti alle più strane applicazioni e modifiche, e fruisce di un armamentario terapeutico basato sull’uso indiscriminato di rimedi quali purghe, salassi, oppio ed alcoolici. Solo dopo la nascita della scienza occidentale (1600) si assiste al tentativo di impostare l’attività medica sulla base di sistemi organicamente coerenti con teorie fisiche, chimiche o biologiche. Da questo momento la pratica della medicina si collega con le conoscenze scientifiche e con gli sviluppi tecnologici: i paradigmi cambiano in conseguenza di ciò. Dovendo necessariamente semplificare e schematizzare questi mutamenti culturali e metodologici, si può constatare come all’inizio è la meccanica a prevalere, e di conseguenza il paradigma dominante in medicina è la descrizione anatomica della “macchina-uomo”, le descrizioni e le classificazioni delle forme delle ossa, dei muscoli e apparati tendinei, sulla circolazione del sangue, ecc… Gli anatomici, al tavolo autoptico, scoprono le modificazioni patologiche visibili della malattia, che viene con esse identificata. La nozione di uomo-macchina e lo “scisma” cartesiano (anima/corpo) si consolidano e divengono il paradigma dominante.
Il paradigma meccanicistico rimane prevalente nella teoria e nella pratica della medicina occidentale fino ai giorni nostri, anche se viene riadattato, con le opportune varianti, passando dal livello macroscopico-anatomico a quello microscopico, fino ad arrivare al livello molecolare.
Quando si rendono disponibili microscopi sempre più perfezionati, si acquisisce la capacità di osservare la cellula, che diventa il centro dell’investigazione biologica, mentre in patologia si assiste allo sviluppo della patologia cellulare (Virchow) e della disciplina connessa che è la microbiologia. Il paradigma cellulare colloca la genesi delle malattie sostanzialmente nell’esito della battaglia tra cellule buone, sane, quelle del corpo (v. i fagociti di Metchnikoff, fine ottocento) e cellule cattive, gli aggressori, i microbi. Se esistono anche fattori “umorali” (ad esempio gli anticorpi), questi sono visti come prodotti delle cellule. Alterazioni cellulari (rigonfiamento, frammentazione della cromatina, steatosi, apoptosi, necrosi, ecc…) vengono riscontrate praticamente in tutte le malattie.
Con lo sviluppo della chimica, la cellula viene analizzata nelle sue componenti molecolari e chimiche. Nasce la bio-chimica e quindi la farmacologia, che studia gli effetti di sostanze chimiche definite sul sistema vivente. Si scoprono gli antibiotici, gli ormoni, i metodi di antisepsi (che consentono enormi avanzamenti nella chirurgia), gli analgesici, gli antiinfiammatori, i vasodilatatori, ecc… Siamo nella prima parte del nostro secolo. Qualcosa, però, ancora sfugge alla comprensione del modo di funzionamento dei sistemi biologici, è come se si conoscessero molti “effetti”, senza conoscerne a fondo i meccanismi. Un altro grande salto concettuale viene fatto quindi con l’avvento della biologia molecolare.
Il paradigma molecolare si impone a partire dagli anni sessanta, perché la scoperta della struttura del DNA rappresenta la possibilità di de-codificare il nucleo fondamentale dell’informazione biologica. Non si è più di fronte solo alla possibilità di conoscere i costituenti della materia vivente (chimica e biochimica), ma si è imparato il linguaggio con cui è scritto il “programma” degli esseri viventi, programma di cui esiste duplice copia in ogni singola cellula somatica. Se di una casa si conoscono i materiali, non si è ancora in grado di ricostruirla e, spesso, neppure di ripararla adeguatamente, ma se si conoscono sia i materiali che il progetto, si dispone di ogni elemento per fare, rifare, modificare la casa stessa. L’analogia con l’ingegneria è talmente calzante che si inizia a parlare proprio di “ingegneria genetica” e di “biotecnologia” (spesso anche con esagerazioni ed inesattezze quando si identifica la biotecnologia con l’ingegneria genetica, perché la biotecnologia in realtà è sempre esistita in campo agricolo e alimentare).
Ormai praticamente tutti i laboratori di un certo livello, sia che si occupino di ricerca pura che di biologia o medicina, hanno messo a punto le tecniche fondamentali di ingegneria genetica (taglio e unione degli acidi nucleici, ibridizzazione, clonaggio, mutagenesi, polymerase-chain-reaction, ecc…) e fanno di queste tecniche la loro punta di diamante. Lo straordinario aumento di possibilità di analisi che si è avuto a seguito dell’introduzione delle tecniche di biologia molecolare, soprattutto nello studio delle proteine e degli acidi nucleici, ha consentito un enorme ampliamento delle conoscenze sulle alterazioni molecolari che caratterizzano moltissime malattie, sia ereditarie che acquisite. Le conoscenze sulle basi molecolari di molte malattie vengono oggi ad avere un impatto sempre crescente sulla medicina anche per le loro ricadute diagnostiche (vedi, ad esempio, la diagnosi prenatale basata sui polimorfismi, o la reazione a catena della polimerasi, PCR, applicata in campi che vanno dall’AIDS alle leucemie) e terapeutiche (v. trapianto di geni in malattie della serie emopoietica, prospettive di terapia genica nella fibrosi cistica). L’approccio molecolare ha avuto, ed avrà ancora per molti anni, il compito di descrivere in modo più preciso possibile le basi di una grande varietà di situazioni patologiche possibili (in teoria, per ciascuno delle migliaia di geni finora identificati, sono possibili miglioaia di diverse mutazioni patologiche). Si tratta di fare, in altri termini, la “anatomia patologica” delle molecole, un compito vari ordini di grandezza più vasto di quello già svolto dall’anatomia patologica a livello di organi o cellule.
L’aumento delle conoscenze in senso estensivo introdotto dall’approccio molecolare ha fatto crescere ulteriormente anche la consapevolezza della estrema complessità dei sistemi viventi. Anche il DNA, ritenuto inizialmente l’ultimo approdo della ricerca in biologia (il “deposito” dell’informazione, la “molecola della vita”), si è mostrato molto più complesso e mutevole del previsto. A ciò si aggiunga l’accresciuta consapevolezza dell’esistenza di numerose differenze biologiche tra gli individui della stessa specie, che rendono difficile, a volte impossibile, stabilire i valori di normalità e prevedere l’esito di interventi regolatori esterni.
In altre parole, con l’aumentare delle conoscenze sulle sub-componenti del sistema vivente, aumenta la difficoltà di descrivere il comportamento unitario del sistema stesso. La parola “complessità” compare sempre più frequentemente nei lavori scientifici e nei libri di testo. I medici sempre di più si rendono conto che le nozioni di biologia molecolare, di biochimica, di fisiopatologia, studiate a fondo nei primi anni del corso di studi, sono difficilmente applicabili al letto del paziente. La ragione fondamentale di ciò sta nel fatto che il medico si trova sempre ad applicare le nozioni biologiche generali ad un caso particolare. “L’elemento veramente caratteristico, che fa della Clinica una scienza tutta speciale, è costituito dal fatto che essa, in primis, deve accertare in quale situazione biologica si trovi quel fenomeno unico, irripetibile sulla scena del mondo, che è il singolo malato” [Federspil e Scandellari, 1991].
Anche da un punto di vista epidemiologico, si può facilmente constatare che, dopo i grandi progressi che hanno inciso drasticamente sullo stato di salute dell’uomo e sulla durata della vita media (vaccinazioni, antisepsi, antibiotici, terapie sostitutive, chirurgia, ecc…), la medicina si trova difronte sfide molto più complesse. Come già riconosceva Alexis Carrel, Nobel per la Medicina nel 1912, uno dei primi scienziati che avvertì acutamente questi problemi: “è giocoforza ammettere che i progressi della medicina sono ben lungi dall’aver soppresso la malattia. Anziché morir rapidamente di infezione, moriamo più lentamente, più dolorosamente, di malattie degenerative: affezioni cardiache, cancri, diabete, lesioni del rene, del cervello, di qualsiasi organo. La medicina non ha ridotto la sofferenza umana tanto largamente quanto noi lo crediamo. La sofferenza nasce non solo dai batteri e dai virus, ma anche da agenti più sottili” [Carrel, 1945]. Tutto ciò avviene nonostante che le spese per il sistema sanitario nei paesi occidentali siano notoriamente enormi ed in continua ascesa.
Ogni sviluppo delle conoscenze scientifiche e delle possibilità tecnologiche pone anche nuovi interrogativi etici. L’opinione pubblica e gli stessi “addetti ai lavori” si interrogano sempre più frequentemente sul senso e la liceità dell’ingegneria genetica in campo medico e, in generale, della utilizzazione di tecnologie avanzate in momenti molto delicati quali la generazione e la morte. La questione del “fine”, cioè la questione del nesso tra l’azione particolare e le sue ultime conseguenze sull’individuo e sulla specie, si pone prepotentemente allorché ci si rende conto delle potenzialità, insite nelle moderne tecnologie, di andare a modificare la “natura essenziale” dell’essere umano. E’ per questo che si sta prendendo coscienza dei rischi insiti nel portare alle estreme conseguenze l’applicazione del metodo scientifico cartesiano in medicina, cioè di escludere totalmente le questioni etiche dalla medicina scientifica.
Il grosso problema, a questo proposito, riguarda le modalità e gli strumenti per attuare tale collegamento tra il livello scientifico ed il livello dei giudizi di valore. E’ necessario un lavoro di ricostruzione dei “nessi” tra le conoscenze scientifiche, che si occupano dei particolari biologici, strutturali e funzionali dell’organismo, e le acquisizioni filosofiche, ottenute mediante la riflessione sulla natura dell’uomo e sui suoi valori peculiari. A nostro giudizio, la scienza potrebbe contribuire a tale sviluppo con le proprie specifiche metodologie, basate sul metodo sperimentale, approfondendo la conoscenza delle leggi della vita, delle caratteristiche proprie dell’essere umano considerato nella sua complessità, unitarietà ed individualità e nei suoi rapporti con l’ambiente in cui vive e che continuamente modifica. E’ interessante, a questo proposito, la definizione di uomo data da Carrel: “Un tutto indivisibile, che si manifesta con delle attività fisico-chimiche, fisiologiche e psicologiche” [Carrel, 1935]. Si tratta, come si vede, di un concetto operativo, elaborato da uno scienziato che, forse per primo nell’era moderna, si è posto l’obiettivo di una sintesi tra scienze umane e scienze biomediche. Sempre Carrel scriveva: “L’avvenire della medicina è subordinato al concetto di uomo. La sua grandezza dipende dalla ricchezza di questo concetto. Anziché limitare l’uomo a certi suoi aspetti, deve abbracciarlo tutto quanto, cogliendo il corpo e lo spirito nell’unità della loro realtà. Supererà le astrazioni che l’anatomia, la fisiologia, la pedagogia, la sociologia considerano rispettivamente come equivalenti all’individuo. In effetti, l’uomo è solo quello che l’osservazione ci rivela di lui. Ci appare come un corpo composto di tessuti, di organi e di umori. Questo corpo manifesta certe attività che noi distinguiamo arbitrariamente in fisiologiche e mentali. (…) L’uomo è al tempo stesso complessità e semplicità, unità e molteplicità. Ogni individuo è una storia diversa da tutte le altre. E’ un aspetto unico nell’universo. Benché non interamente incluso nel continuum fisico e tale da sfuggire, grazie al proprio spirito, fuori dallo spazio e dal tempo, è inseparabile dall’ambiente fisico e chimico e psicologico. E, in ultima analisi, dalle istituzioni economiche e sociali. (…) Fin qui, ci siamo studiati solo di procurarci concetti frammentari. La nostra analisi ha cominciato prima di tutto con lo spezzare la continuità dell’uomo e dell’ambiente cosmico e sociale. Poi ha separato l’anima dal corpo. Il corpo è stato diviso in organi, cellule e liquidi. E in questo processo di dissezione, lo spirito è svanito. Così sono molte le scienze che hanno ognuna per tema un aspetto isolato dell’uomo. Noi le chiamiamo sociologia, storia, pedagogia, fisiologia, ecc. Ma l’uomo è molto di più che la somma di questi dati analitici. Conviene quindi considerarlo nelle sue parti e nel suo insieme, in quanto nell’ambiente cosmico economico e psicologico reagisce come unità, e non come molteplicità” [Carrel, 1945].
La medicina può documentare che “l’uomo è molto più che la somma dei dati analitici”, aprendosi allo studio della complessità. Si tratta di un’esigenza sempre più avvertita da parte degli “addetti ai lavori”, coscienti della necessità di far rifluire le grandi potenzialità insite nei moderni mezzi tecnologici di indagine e di terapia in una sintesi che sia a misura del singolo paziente. Cresce la consapevolezza dell’importanza della globalità, dell’individualità, dei fenomeni di interrelazione sistemica, dell’ecologia.
Non esiste una definizione univoca di complessità, anche se, nella vita quotidiana, si usa spesso questo termine: problema complesso, figura complessa, meccanismo complesso, ecc… Esistono definizioni diverse a seconda del contesto [Arecchi e Arecchi, 1990]. Una cosa però è certa, che il termine “complessità” è utile per descrivere e capire i sistemi altamente organizzati [Cramer, 1993].
Da un punto di vista puramente matematico, la complessità viene definita come il logaritmo del numero dei possibili stati di un sistema. Secondo la teoria dell’informazione, la complessità viene definita come la dimensione del programma di calcolo (misurata in bits) necessario per descrivere una “struttura”, come ad esempio una sequenza di numeri o di lettere [Arecchi and Arecchi, 1990, Cramer, 1993].
Naturalmente, queste definizioni di complessità dipendono da quali si considerano i possibili stati utili per il calcolo: la complessità di una proteina potrebbe essere calcolata sulla base delle combinazioni possibili degli aminoacidi che la compongono, arrivando quindi ad un enorme numero di possibili combinazioni. D’altra parte, si potrebbe considerare la complessità di una proteina solo in base alla presenza di aminoacidi idrofilici o idrofobici (operazione utile per vedere la possibile integrazione nelle membrane fosfolipidiche), e questo semplificherebbe il calcolo, riducendo la complessità della proteina e le differenze tra diverse proteine. Si potrebbe poi riferirsi solo ai suoi possibili cambiamenti conformazionali, che di solito sono limitati a uno o pochi, in quanto la proteina tende sempre a disporsi nella forma in cui l’energia libera è minore. Ad esempio, un enzima che può assumere due forme, attivo e non attivo (on/off) a seconda che leghi o no una molecola di AMPciclico, può essere considerato, da questo punto di vista, meno complesso dell’emoglobina, che ha quattro forme, a seconda del numero di molecole di ossigeno che lega.
Nel passaggio dai modelli chimico-fisici a quelli biologici, si assiste ad enorme aumento di complessità, perché i sistemi viventi sono composti di moltissime parti diverse tra loro in relazione. Da questo punto di vista, si tratta di un aumento quantitativo di complessità. E’ stato sostenuto che la complessità degli esseri viventi è tale che il programma necessario per descriverli è di una dimensione simile al sistema stesso. Si parla, in questo caso, di “complessità fondamentale”, perché essa non può essere in alcun modo semplificata.
Quanto più un sistema è complesso, tanto più ha reso complessa la gestione delle informazioni, che può essere effettuata da molti elementi disposti in sequenze ed in reti. Tali reti (networks) connettono diversi elementi e gestiscono l’informazione com meccanismi di amplificazione o di feed-back multipli e incrociati. Esempi di tali reti sono quelle neurali, quelle del sistema immunitario, quelle delle citochine, ecc… L’informazione, nelle reti biologiche, è solitamente “ridondante”, cioè lo stesso segnale può agire su molteplici bersagli ed essere prodotto da molteplici elementi del sistema.
Tra l’altro, bisogna notare che l’informazione contenuta in un individuo umano è miliardi di volte superiore a quella contenuta nel DNA. Il cervello umano rappresenta l’oggetto di massima complessità conosciuto in tutto l’universo. La morfologia del cervello rivela che i neuroni del cervello (10 miliardi) sono connessi da un milione di miliardi di connessioni sinaptiche. Tale numero è enormemente più grande di qualsiasi possibile informazione genetica, indicando che la struttura del cervello non è ultimamente determinata geneticamente, ma piuttosto dall’interazione tra le potenzialità genetiche e le sollecitazioni ambientali. Le ramificazioni dendritiche che collegano vari neuroni si sovrappongono notevolmente (fino anche al 70%), così che non è possibile disegnare dei circuiti unici e precisamente definiti. Esaminando la formazione del cervello, si vede che un preciso modo di connessione tra un neurone e l’altro, pre-specificato dall’inizio, è da escludersi. I neuroni, quando emettono i prolungamenti assonici non sanno dove inviarli, con quale altro neurone connettersi. In ogni individuo, persino in gemelli identici, i neuroni si ramificano in diversi modi. Non è pensabile che le connessioni siano specificate unicamente a livello molecolare (molecole di adesione), perché non esistono marcatori di membrana così specifici da dirigere una architettura così complessa (notare che ciò è sostenuto dal NObel G. M. Edelman, scopritore delle molecole di adesione neurali e fondatore della topobiologia [Edelman, 1993]).
Studiando il funzionamento di neuroni di aree cerebrali deputate a specifiche funzioni, si osserva che ogni individuo ha mappe diverse e che anche nello stesso individuo le mappe variano a seconda dell’esperienza, allargandosi, restringendosi ed anche spostandosi lateralmente. Nella stessa area, molti neuroni rimangono silenti anche quando la funzione è attiva, ed è impossibile predire quali neuroni saranno silenti e quali scaricheranno applicando un determinato stimolo.
Le cellule della corteccia cerebrale sono organizzate in gruppi funzionalmente accoppiati: quando arriva uno stimolo alla corteccia, ad esempio uno stimolo luminoso proveniente dalla retina, molti neuroni sono attivati e scaricano impulsi, ma non in modo casuale, bensì in modo coordinato, con oscillazioni alla frequenza di circa 40 Hz. D’altra parte, la regolarità non è una costante: l’elettroencefalogramma rivela che nelle oscillazioni cerebrali è presente, come componente normale, una notevole caoticità [Freeman, 1991].
In sintesi, nel cervello sono rappresentate in modo emblematico tutte le caratteristiche della complessità: enorme quantità di informazioni, reti, comportamenti collettivi, fondamentale importanza della forma, plasticità evolutiva, caos. Alcuni studiosi si sono spinti ad affermare che la coesistenza di ordine e caos nel cervello è proprio ciò che garantisce la possibilità di generare nuove idee e, persino, la possibilità del libero arbitrio in un mondo retto da leggi deterministiche [Crutchfield et al., 1991].
Oggi quindi assistiamo da una parte allo sviluppo progressivo, che ancora non mostra segni di “saturazione”, della biologia molecolare, dall’altra all’aumento di coloro che si collocano in un nuovo paradigma, che fa riferimento alla scienza della complessità. In estrema sintesi, si potrebbe parlare di un passaggio da un paradigma basato sul riduzionismo meccanicistico-molecolare ad un paradigma basato sulla complessità e sulla bioetica (intesa in senso molto ampio). I segni dell’emergere di tali nuovi approcci concettuali e sperimentali, nel campo della biologia e della medicina, sono ancora piuttosto sporadici e minoritari rispetto al paradigma dominante. Lo stesso programma di Carrel, che aveva cercato di fondare, negli ultimi anni di vita, un Istituto dedicato alla “scienza dell’uomo”, è rimasto praticamente senza seguito. Tuttavia, oggi i tempi per una inversione di tendenza paiono maturi e le nuove prospettive qui delineate si vanno diffondendo nella cultura scientifica e medica, soprattutto perché esse sono in linea con la rivoluzione che è già avvenuta nella fisica e nella matematica nel corso del novecento ed in linea con un cambiamento della filosofia e della cultura dominanti nelle società occidentali.
A conclusione di queste considerazioni, sorge spontaneo il quesito se sia possibile una integrazione di tutti questi aspetti, considerati nei loro vari livelli che vanno dal molecolare al mentale, in un quadro generale teorico e, ciò che più conta, nella pratica della medicina. La risposta a tale quesito è certamente negativa se si intende con il termine “integrazione” una teoria onnicomprensiva, una teoria esatta e completa dell’essere vivente, dell’uomo, della malattia. I processi biologici raggiungono un tale alto grado di complessità che non è possibile descriverli in modo completo, preciso e predicibile.
La teoria della complessità e del caos deve ancora trovare la sua espressione pratica nel metodo con cui si applica la medicina. E’ possibile però, già da subito, una integrazione dei vari aspetti qui considerati, se non altro come un “cambiamento di mentalità” di chi opera in campo biomedico e assistenziale: riconoscere l’esistenza dei diversi livelli in cui si può descrivere l’essere umano e l’esistenza delle interrelazioni di tali livelli. Cioè, è proprio dalla consapevolezza della complessità che può prendere le mosse un realistico tentativo di integrazione. Scrive Carrel: “L’uomo, in quanto è al tempo stesso molteplice e semplice, richiede uno studio analitico e sintetico, il quale a sua volta deve avvalersi di parecchi metodi convergenti” [Carrel, 1945].
Introdurre il concetto di complessità e di caos nella biologia e nella medicina significa introdurre, in un certo senso, un nuovo modo di pensare, di tipo non-lineare e sistemico, basato sull’integrazione di più approcci allo stesso sistema-oggetto. Il paradigma della complessità, paradossalmente, implica la eliminazione dei paradigmi dalla pratica della scienza e della medicina. Come diceva Carrel, “noi dobbiamo rifiutare i sistemi filosofici e scientifici come spezzeremmo le catene di una schiavitù intellettuale. E in quanto disciplina scientifica, la medicina è indipendente da ogni dottrina. Non c’è nessuna giustificazione che essa sia piuttosto vitalista che meccanicista, materialista che spiritualista. Né conviene che segua Ippocrate o Paracelso, Freud o Mrs. Eddy. L’osservazione e l’esperienza sono le sole fonti della conoscenza” [Carrel, 1945].
L’Autore ringrazia i colleghi dell’Associazione A. Carrel di Verona per il contributo di idee ed il sostegno della loro amicizia.

Bibliografia
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