Salute mentale, psicofarmaci e case farmaceutiche. Vi proponiamo la seconda parte della relazione di Agostino Pirella, Ordinario di Psichiatria alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino.
L’articolo prosegue con l’analisi di ciò che può accadere all’interno delle istituzioni in cui divengono confusi e indistinti (“blurred”) gli scopi commerciali dell’industria e la mission delle scuole mediche. E’ evidente come gli studenti in medicina vengano addestrati a ritenere la soluzione farmacologica come la principale rispetto alle altre forme di risposta, più complesse e difficili da realizzare all’interno della relazione rigida di tipo medico, ereditata dal paradigma storico della psichiatria asilare. Che questo stia avvenendo in modo massiccio, è dimostrato dall’assoluta prevalenza di indicazioni farmacologiche per tutta una serie di disturbi psichiatrici in cui l’esperienza dimostra l’utilità e l’efficacia di metodiche diverse.
Prendiamo ad esempio la depressione come disturbo. Intanto non è così semplice distinguerla da una demoralizzazione, come da un semplice sintomo di altra condizione, anche organica. Ma in tutti i casi, una forma di psicoterapia o di supporto è assolutamente indispensabile. La cosa è trascurata dall’enfasi sul trattamento farmacologico e sulla discussione su quale tipo di farmaco antidepressivo sia più efficace. Quando si interpella un ricercatore sciolto da legami con le Case farmaceutiche invariabilmente viene evidenziato questo aspetto. E’ il caso, tra gli altri di Jan Scott, che fin dal 1995 sul British Journal of Psychiatry rilevava l’efficacia dei diversi trattamenti psicoterapeutici. (2)
Anche per quanto riguarda gli antipsicotici, l’enfasi sui “nuovi” farmaci è molto forte. Ciò accade ovviamente da parte delle Case farmaceutiche interessate e dagli psichiatri in qualche modo da esse condizionati, ma – un po’ a sorpresa – anche da parte delle associazioni delle famiglie che desiderano che il Servizio sanitario nazionale rimborsi gli alti costi del trattamento.
Eppure abbiamo assistito – scrive autorevolmente Silvio Garattini – ad una “campagna trionfalistica per i nuovi antipsicotici, seminando l’idea che i vecchi non avevano più significato e che i nuovi dovevano essere utilizzati come prima linea”. “Troppe volte i farmaci – continua Garattini – in omaggio ad una legge europea che non è stata modificata dalla recente revisione da parte del Parlamento europeo, sono approvati senza avere un adeguato numero di studi. La loro approvazione non tiene conto di quanto già esiste nell’armamentario terapeutico corrente; raramente si fanno confronti adeguati e mai si richiede che i nuovi farmaci siano migliori di quelli già esistenti”.
A questo proposito Garattini rileva – cosa ampiamente nota ma mai abbastanza ricordata – i gravi effetti collaterali attribuiti ai nuovi antipsicotici: aumento ponderale fino a 10 Kg., rischio di morbilità e mortalità cardiovascolare, tendenza a sviluppare diabete. Per uno di essi (clozapina) c’è anche un rischio significativo di agranulocitosi che può portare a decesso. Secondo Garattini ci deve essere più attenzione per il rapporto benefici-rischi. Infine c’è da osservare l’enorme spesa per questi nuovi farmaci: 168 milioni di euro nel 2003 contro 12 milioni per i vecchi: In sostanza il 46% delle prescrizioni determina il 92% della spesa (Fonte: OsMed: Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali, Ministero della Salute)(3).
La valutazione dell’efficacia e gli intrecci degli interessi
C’è una singolare contraddizione tra lo stato di realtà delle ricerche sulla correlazione tra disturbi mentali (o più largamente studi sul funzionamento cerebrale con nuove tecniche di indagine) e presunta base biologica di essi e l’enfasi con cui i mass media danno per accertata una genesi organica dei disturbi stessi, e dunque la necessità di trattamenti farmacologici. La traduzione di questo messaggio fallace, in termini di diffusione culturale nella popolazione da una parte e della pratica inerte e ripetitiva sul versante delle relazioni terapeutiche degli specialisti, rappresenta il tentativo di un completo dominio della “non santa alleanza” (“unholy alliance” di Loren Mosher) tra le associazioni psichiatriche e l’industria farmaceutica. Vediamo quindi che la psichiatria ha medicato la sua crisi aggrappandosi alle neuroscienze, con un’evidente forzatura dei limiti entro cui poteva muoversi dopo il fallimento storico della proposta istituzionale rappresentata dall’esclusione dei malati mentali negli asili manicomiali.
Mentre il DSM ha venduto 2,5 milioni di copie ed è stato tradotto in ben 21 lingue, dettando norme di inquadramento diagnostico coerenti con le prescrizioni farmacologiche, in un ambiguo confronto impari con il sistema nosografico dell’OMS/WHO (ICD), l’uso propagandistico dei progressi delle ricerche sul funzionamento cerebrale tenta di travolgere ogni pratica che si fondi sulla relazione del servizio con il paziente ed il suo contesto. Perfino la dimostrazione che un trattamento psicoterapeutico sia efficace quanto e anche più di un trattamento farmacologico nella depressione (Scott, 1995) si blocca di fronte alla misurazione del tempo da dedicare al paziente e dei costi complessivi della cura.
Non c’è dubbio che considerazioni sui livelli dei costi possano (e forse debbano) essere attentamente valutate dai programmatori dei servizi e dagli stessi tecnici. E tuttavia si dovrebbe poter spostare la questione al di fuori del modello esclusivamente medico che contrappone la prestazione di un singolo specialista a quella di un altro. Le esperienze degli ultimi decenni e la nuova attenzione per le ricerche di psichiatria culturale ci portano a considerare i fattori che ostacolano o favoriscono la diffusione di trattamenti di gruppo, le iniziative di supporto, le attività collettive di socializzazione delle conoscenze.
Il trattamento considerato efficace è quello esclusivamente erogato dal curante/esperto mediante prescrizione di psicofarmaci e/o di psicoterapia “manualizzata” (così si definisce una psicoterapia autorizzata e tecnicizzata). Eppure le esperienze di deistituzionalizzazione e quelle più esplicitamente riabilitative hanno dimostrato la loro efficacia anche fuori da questo paradigma valutativo duale. Tutte le ricerche sull’”efficacia simbolica” (espressione coniata da Lévi-Strauss a proposito di una complessa cerimonia del popolo Cuna per la risoluzione di parti difficili) come pure la descrizione di cerimonie risolutive di conflitti, stanno a dimostrare l’utilità per la salute mentale di ciò che si muove nel campo socio-culturale sottratto al dominio del mercato mondiale degli psicofarmaci.
Così è, per esempio, anche nel mondo occidentale, per il Posttraumatic Stress Disorder, che viene trattato nel National Centre for PTSD di Washington (per reduci di guerra) con diverse cerimonie, che rievocano fasi diverse di una storia comune a tutti i partecipanti. “Se può essere ammessa in via di principio – scrive Roberto Beneduce – l’efficacia terapeutica di simili cerimonie, che sostengono l’individuo nello sforzo di dominare e “accreditare” una definizione comune di quanto gli è accaduto, bisogna riconoscere al tempo stesso che quelle cerimonie lo coinvolgono profondamente anche nella ideologia della retorica che fondano l’uso di una categoria e la sua riproduzione” (4). Non sfugge in questa particolare esperienza, infatti, la relativa riconduzione della cerimonia dentro le logiche della continuità dell’esperienza di guerra e dunque all’interno di un universo “militare” con le sue peculiari caratteristiche.
Resta da verificare per quali motivi si sono potute affermare come “scientifiche” e “golden standard” metodiche ampiamente deficitarie, come per fortuna si stanno evidenziando. Mosher afferma in modo più reciso di quanto non abbia fatto il NEJM: “I protocolli di ricerca usati negli studi su psicofarmaci richiesti per l’approvazione del FDA si suppone vengano rivisti dagli Institutional Review Boards (IRB’s) per essere sicuri che questi studi non pongano rischi indebiti ai soggetti di studio. Membri di questi Boards sono stati trovati essere consulenti altamente pagati dalle Case farmaceutiche i cui protocolli essi stessi rivedono. Così, essi hanno ovvi conflitti di interesse e non sono revisori obiettivi privi di condizionamenti nei confronti di studi su psicofarmaci sui quali esercitano un parere” (5).
Anche E. Valenstein, nel suo bel lavoro Blaming the Brain, dà una lucida descrizione degli intrecci di interessi tra Case farmaceutiche, psichiatri ed ambienti della ricerca ed accademici (6).
(2) J. Scott, Psychological Treatment for Depression, British Journal of Psychiatry, 1995, 167, 289292
(3) S. Garattini, Maggiore prudenza sui nuovi medicinali, Il Sole 24 ore, Sanità, 16-12 marzo 2004
(4) R. Beneduce, Frontiere dell’identità e della memoria, Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo, Franco Angeli, 1998 (pag. 121)
(5) L. Mosher, How Drug Company Money Has Corrupted Psychiatry, www.antipsychiatry.org/mosher.loren.1.htm
(6) E. Valenstein, Blaming the Brain, The truth about Drugs and Mental Health, The Free Press, New York, 1998. Vedi in particolare il cap. 6 “How the pharmaceutical industry promotes drugs and chemical theories of mental illness”
Continua…
Fonte: Giù le Mani dai Bambini
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