Se la legge imponesse dei limiti circa la quantità di sale contenuta negli alimenti, l’incidenza di malattie cardiovascolari diminuirebbe del 18%.
A rivelarlo è uno studio australiano dell’Università del Queensland pubblicato sulla rivista Heart.
“Se non c’e’ una assunzione di responsabilità da parte delle aziende – ha affermato Linda Cobiac, autrice dello studio – potrebbe essere eticamente giustificato un intervento legislativo”.
Gli autori dello studio spiegano che diversi paesi hanno già adottato, su base volontaria, programmi che prevedono la diminuzione della quantità di sale impiegata per i cibi industriali e l’adozione di etichette che mettono in guardia i consumatori sulle conseguenze di una dieta troppo saporita.
Intanto in Australia è allo studio un marchio ben riconoscibile che potrebbe orientare il consumatore verso i prodotti iposodici.
“Almeno il 60-70 per cento del sale che introduciamo ogni giorno deriva proprio da prodotti che acquistiamo come tali”, spiega al Corriere Pasquale Strazzullo, responsabile del Gruppo Intersocietario sul sale della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa, “Se anche fossimo bravi a non mettere la saliera in tavola e a ridurre l’aggiunta di sale alle pietanze, non potremmo diminuire di più del 30 per cento il nostro introito di sale giornaliero. Questo significa che se l’industria alimentare non ci aiuta sarà molto difficile arrivare a un reale calo dei consumi di sale della popolazione, necessario per garantire ai cittadini un minor rischio cardiovascolare».
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