Psicofarmacoterapia, due passi oltre il mito

A 50 anni d’età, anche per la psicofarmacologia è giunta l’ora dei bilanci e delle domande critiche. I nuovi farmaci antipsicotici, diversi dai precedenti per maggiori prezzi, per migliorata tollerabilità, ma non per la loro maggiore efficacia, vengono accusati ad esempio di incrementare ingiustificatamente i costi della cura della schizofrenia (med.stanford.edu/medicine).

Lo straordinario numero di antidepressivi in commercio è giustificato da un amplificato incremento di indicazioni per sindromi cliniche di dubbia diagnosi differenziale (spettri depressivi e ansiosi, depressioni subcliniche, prodromiche, cliniche, residuali, ‘stress’, adolescenti, anziani) e tradizionalmente trattabili anche con altri interventi terapeutici.

Al di là dell’aumento di suicidi riportati in gruppi di adolescenti trattati con SSRI (selective serotoninergic reuptake inhibitors), l’uso della farmacoterapia da sola in alternativa ai trattamenti psicosociali viene accusata di mantenere, se non di peggiorare, il disagio psichico (Migone, 2005).

Se in fase acuta l’intervento sintomatico assicurato dal farmaco è giustificato, sul lungo termine esso rischia di sostituirsi alle necessarie risposte di adattamento che il soggetto deve mettere in atto per affrontare le sue fonti di stress e per mobilizzare le sue risorse personali (interiori o esterne) (Fava, 1994 e 1995).

Le neuroscienze, come dimostrato dal Premio Nobel per la Medicina assegnato nel 2000 allo psichiatra ER Kandel, hanno completamente rinnovato la visione del rapporto cervello-mente nella sua complessa interazione allostatica tra fattori genetico-ambientali e psiconeurofisiologici impegnati.

La visuale offerta dalla farmacologia appare oggi obsoleta. Appaiono ben parziali i cambiamenti indotti dai farmaci sul Sè cellulare identificabile nel cervello rettile (tronco cerebrale), regolando a livello ‘locale’ bilancie neuroormonali (adrenalina, serotonina, dopamina) collocate in ambiti cosi diversi come il SNC o l’intestino o i globuli rossi. Impossibile non tener conto di un livello di cambiamento più ‘globale’ che coinvolga livelli più elevati del Sè nei cervelli ‘emotivo’ (sistema limbico) e ‘pensante’ (neocorteccia).

Le psicoterapie ‘globali’ e ‘strategiche’ nel loro meccanismo d’azione sul Sè neuropsicofisico risultano capaci di indurre cambiamenti a livello epigenetico (Rossi, 2004) e sul substrato neurobiologico, come dimostrato per la psicoterapia cognitiva (Porto, 2009) e l’EMDR (Levin, 1999). Light Therapy (Lam, 2009) e Brain Stimulation Therapies (Higgins, 2009) hanno dimostrato risultati antidepressivi e ansiolitici paragonabili a quelli della farmacoterapia con assenza pressochè completa di effetti collaterali sistemici.

Mito famacologico ridimensionato? No, al pubblico, la farmacoterapia è presentata sul mercato della salute come la cura ‘scientificamente’ fondata della mente. Le proposte terapeutiche alternative, seppur prospettate ‘su base scientificamente fondata’ in termini di evidenze sperimentali e cliniche, non vengono prese in considerazione dai criteri della Evidence Based Medicine, dalle Consensus Conferences degli esperti in linee guida di trattamento e dalla maggior parte dei media.

Tra gli anni 60 e 80, indubbiamente l’efficacia clinica di antidepressivi e antipsicotici ha reso possibile il controllo dei sintomi, ridotto l’invalidità delle forme croniche e severe di malattia mentale, ridimensionato lo stigma sociale. Per la prima volta la psichiatria diventava scienza, non più cenerentola, ma Principessa nel Regno della Medicina.

Ma proprio in questo momento magico la farmacoterapia è diventata una specie di dittatura scientifica, c’è un solo punto di vista, una sola mentalità professionale e tecnica. I Direttori di riviste, i board dei Congressi sono quasi sempre formati da Universitari a collaborazione con Industrie Farmaceutiche.
La stessa psichiatria biologica, inizialmente libera, è sempre più finanziata e subordinata ai fini dell’Industria Farmaceutica. Si sviluppano linee guida di trattamento, si riscrivono classificazioni diagnostiche, si pubblicano Manuali per i giovani psichiatri in formazione utilizzando come unico fulcro del meccanismo terapeutico l’uso del farmaco ‘giusto per lo specifico bisogno del paziente’.

Questo è stato il problema della psichiatria degli anni 90. Ha messo il freno a quello che si poteva fare, al dubbio, all’alternativa, al rischio. Ognuno tendeva a considerare giusto quello che già sapeva. Chi si defila è pericoloso. Perchè costringe a pensare e perchè costringe a pensare in modo rovesciato rispetto al ‘normale’. La ricerca di base non farmaco – orientata langue, senza finanziamenti le forze di psicologi o psichiatri non schierati si disperdono, le neuroscienze faticano a finalizzarsi fuori dalla strada che porti al farmaco.

Oggi si assiste ad una nuova fase, in cui la cultura della salute ha ripreso la strada della scelta etica del trattamento più adeguato per il soggetto. Rientra nel processo decisionale il bisogno di porre sempre più attenzione alla guarigione che non si identifica con la mera riduzione sintomatologica del 50% rispetto alle condizioni di partenza, criterio generalmente usato per valutare positiva la risposta clinica ad un trattamento farmacologico (Hollon, 2002).

Il trattamento terapeutico ideale può essere solo quello che si prefigge un ritorno al livello di funzionamento premorboso. Dopo un’esperienza depressiva, esso raggiungerà la remissione sintomatologica, ma dovrà anche agire sulla vulnerabilità biopsicosociale del soggetto, assicurare la sua ripresa funzionale, ridurre il rischio di nuovi episodi disadattivi o di scompenso clinico.

Utilizzando questo criterio di guarigione, l’efficacia degli antidepressivi, ben documentata sulla sintomatologia acuta dal marketing delle Industrie Farmaceutiche, appare ridimensionarsi drasticamente. Infatti, da tempo noti (Bellantuono, 1997) trovano conferma continua i dati non pubblicizzati su ciò che interessa direttamente i pazienti: 25-30% dei depressi trattati con antidepressivi non rispondono ai farmaci (Paykel, 1995) e il 65-70% ricadono dopo sospensione.

In particolare, il rapporto remissione (guarigione) / risposta efficace (riduzione di oltre il 50% dei sintomi presenti prima della terapia) dopo 2 mesi è 30/70% con SSRI, 35/65% con SNRI (serotonin norepinephrine reuptake inhibitor), 27/35% con placebo (Kirsh, 2002a). La residualità dei sintomi, presente nel 15-60% dei gruppi trattati (di cui il 95% sono somatici), giustifica il conio di una definizione diagnostica (depressione residuale) ed il suo trattamento con terapia cognitiva (Fava, 2003). La remissione a 12 mesi risulta del 38% con SNRI, 28% con SSRI, 22% con placebo (Thase, 2002).

Dunque, l’efficacia profilattica nel tempo degli antidepressivi risulta non dissimile da quella del placebo e spesso inferiore a quella di altre terapie, come la psicoterapia cognitiva (Antonuccio, 1995), focalizzate su cambiamenti ‘strategici’ (Kirsh, 2002b).

Ogni farmaco si accompagna immancabilmente alla comparsa anche di effetti collaterali (15% dei casi) di vario e studiato grado di gravità: dalla nausea, soft neurological sign (memoria, distraibilità, distacco emotivo), calo libido e anorgasmia, aumento ponderale dei ‘sicuri’ SSRI alla stipsi, cefalea e ipertensione con SNRI fino al comune rischio di viraggio maniacale farmacoindotto (altro conio di categoria diagnostica: bipolarità tipo 2). Ciò vuol dire bisogni insoddisfatti per il paziente, per il clinico e per il ricercatore.

Rimane a tutt’oggi inattesa la speranza di una latenza d’azione rapida (per vedere l’effetto antidepressivo occorre sempre attendere 4-8 settimane). Viene delusa, spesso dolorosamente, soprattutto l’attesa di una guarigione dopo la sospensione del farmaco. In 2/3 dei casi dopo il primo o i successivi cicli segue una ricorrenza di malattia, cresce la prospettiva di una terapia da assumere per lungo tempo se non (consigliata dopo almeno 3 ricorrenze dalle Consensus Conference di esperti) a vita.

Perciò non casualmente, bensì per diffidenza naturale del paziente e per disinformazione colpevole del medico, 1/4 dei pazienti sospende il farmaco antidepressivo dopo 1 mese, 40% dopo 4 mesi e 3/5 non raggiunge la dose terapeutica. Moltissimi si rivolgono verso un approccio alternativo o integrato. Questo atteggiamento spontaneo dei pazienti, trova oggi una sempre maggiore applicazione nella pratica clinica ed un suo razionale scientifico. Il farmaco assicura dall’esterno un contenimento della disregolazione emotiva che influenza in ogni momento della vita del paziente la sua attenzione, le sue capacità decisionali, la memoria, le risposte fisiologiche e le interazioni sociali.

Cessato l’uso del farmaco, i meccanismi eziopatogenetici che concorrono a determinare la disregolazione emozionale ritornano ad essere slatentizzabili, in attesa che i fattori di rischio e di protezione ne determinino l’evoluzione in senso adattivo o disadattivo.

L’intervento psicoterapeutico è una forma naturalistica di comunicazione umana clinicamente orientata. Il fine è il recupero delle risorse dell’individuo per rispondere alle necessità di adattamento quotidiane. L’interazione umana come strumento di terapia aumenta la consapevolezza dei fattori (interni ed esterni) in gioco nel determinismo dell’esperienza depressiva, favorisce una migliore gestione della sfera emozionale ed affettiva, ricontestualizza i precursori infantili nelle traiettorie personali dello sviluppo psicorelazionale, individua nella storia dell’individuo i condizionamenti e le risposte stereotipe che determinano la ciclicità delle ricadute cliniche.

Conclusa l’esperienza psicoterapeutica, i meccanismi di cambiamento agiti dall’interno rimangono patrimonio stabile dell’individuo. Così da poter essere mobilizzati attivamente nella gestione della difesa dall’impatto di possibili eventi stressanti e per mantenere alta la propria qualità di vita (Elkin, 1989).

Questa attenzione e neutralità d’informazione ‘scientificamente supportata’ ci aspetteremmo dai responsabili della tutela della salute pubblica (Garattini, 2005).

Appaiono impegnati nel disturbo mentale (ma anche nel campo delle epidemie influenzali planetarie) più a mantenere la cultura della malattia come un processo negativo, dannoso, nocivo. Così salvando il mito del farmaco che toglie il male e la sofferenza. Così uccidendo nella coppia terapeutica la ricerca del vero significato dell’esperienza soggettiva che si cela dietro ogni attacco di panico o episodio depressivo…

Bibliografia
1. Antonuccio DO., Danton WG Pstychotherapy vs medication for depression: challenging the Conventional Wisdom with data. Professional Psychology. Research and Practice, 28,6,574-85, 1995
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5. Fava G.A.: Suscettibilità alle ricadute e cronicità nei disturbi affettivi. Siamo sicuri che i farmaci antidepressivi ed ansiolitici abbiano solo un effetto protettivo? Rivista Sperimentale di Freniatria, CXIX, 2: 203-209, 1995.
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12. Lam RW, Tam EM: A clinician’s guide to using Light Therapy. Cambridge University Press, 2009
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17. Rossi EL.: Discorso tra geni. Neuroscienza dell’ipnosi terapeutica e della psicoterapia. Editris, 2004
18. Thase ME (2002) The emperor’s new drugs: an analysis of antidepressant medication data submitted to the US Food and Drug Administration. Prevention & Treatment, 5: http://www.journals.apa.org/prevention/volume5/pre0050023a.html.

Fonte: Brainfactor

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