I PFAS interferiscono con il recettore della vitamina D, inducendo una ridotta risposta delle cellule scheletriche alla vitamina D stessa, che si manifesta con una minor mineralizzazione ossea. Ciò – oltre a chiarire i meccanismi attraverso i quali i PFAS interferiscono con l’attività di questo importante ormone – suggerisce un possibile ruolo per questi inquinanti nella patogenesi dell’osteoporosi, la principale patologia correlata ai ridotti livelli di vitamina D.
È quanto emerge da uno studio italiano pubblicato su ‘Endocrine’ e condotto da Carlo Foresta, ordinario di endocrinologia presso l’Università degli Studi di Padova, e Andrea Di Nisio, che da tempo studiano gli effetti di queste sostanze il cui inquinamento dal Veneto è diventato un’emergenza nazionale.
I ricercatori hanno valutato la densità dell’osso in 117 giovani maschi di età compresa tra 18 e 21 anni esposti all’inquinamento da PFAS. “Confrontando i risultati con quelli ottenuti in un analogo gruppo di controllo di giovani non esposti a questo inquinante – ha spiegato Foresta – è emerso che negli ragazzi esposti la densità minerale ossea era significativamente inferiore rispetto ai controlli. Questi risultati suggeriscono un’interferenza dei Pfas con lo sviluppo scheletrico, così come altri interferenti endocrini non considerati in questo studio. Nel 24% dei soggetti esposti si osservava infatti una maggior frequenza di osteopenia e osteoporosi, rispetto al 10% dei soggetti di controllo”.
La vitamina D per l’80% si forma attraverso l’esposizione al sole: è dunque contraddittorio che in Paesi mediterranei come l’Italia e la Spagna si registri una condizione generalizzata di ipovitaminosi D, hanno commentato i ricercatori. Eppure, nonostante l’incremento nell’utilizzo di farmaci per la supplementazione di vitamina D, le patologie correlate a bassi livelli di vitamina D continuano ad aumentare.
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