L’acqua è la fonte principale di esposizione a PFAS per i residenti in aree in cui le acque potabili sono contaminate. Anche gli alimenti, però, possono contribuire all’apporto di PFAS, in particolare per il PFOS che ha una capacità di bioaccumulo negli organismi viventi più elevata.
È quanto emerge dallo studio “Contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche in Veneto: valutazione dell’esposizione alimentare e caratterizzazione del rischio” realizzato dal Dipartimento di Sicurezza Alimentare, Nutrizione e Sanità Pubblica Veterinaria (DSANV) dell’Istituto Superiore di Sanità recentemente reso pubblico sul proprio sito dalla Regione Veneto.
Nell’ambito dello studio è stato inizialmente realizzato un monitoraggio degli alimenti prodotti nella zona a maggiore impatto di contaminazione (‘zona rossa’). Questa attività è stata svolta in collaborazione con la stessa Regione, l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie e l’Agenzia Regionale per l’Ambiente del Veneto e ha prodotto una prima caratterizzazione del livello di contaminazione da PFAS delle principali produzioni agro-zootecniche.
Su questa base lo studio dell’ISS ha derivato stime di esposizione per cinque fasce d’età della popolazione generale. Lo studio ha confrontato aree del Veneto interessate in maniera più o meno severa dall’inquinamento con altre zone non interessate.
Lo studio rileva che l’acqua ad uso idropotabile è il principale veicolo dell’esposizione; gli alimenti prodotti localmente (in particolare latte, uova e prodotti a base di uova, pesce) contribuiscono in maniera inferiore. In merito all’acqua, lo studio evidenzia come l’intervento sulla rete acquedottistica operato dalla Regione abbia prodotto una drastica diminuzione dell’esposizione: per la popolazione allacciata alla rete, oggi l’esposizione stimata è indistinguibile da quella di baseline (popolazione del Nord-Est) anche per l’area più contaminata (area rossa A).
I gruppi di popolazione in cui permangono esposizioni elevate al PFOA (il composto più importante per l’esposizione ed il rischio) sono quelli della zona rossa A che consumano acqua di pozzo e i livelli espositivi dei bambini sono circa il doppio di quelli degli adulti.
Nel caso del PFOS (il secondo dei due principali perfluoroalchilici insieme al PFOA) l’esposizione alimentare complessiva vede un maggiore contributo in termini percentuali degli alimenti (uova, pesce) e minore dell’acqua. In termini di esposizione media in rapporto alla dose tollerabile settimanale (tolerable weekly intake, TWI) si rilevano meno criticità ma si osserva una maggiore dispersione dei valori dei livelli espositivi, con un significativo numero di soggetti con esposizioni molto superiori a quella media. Nel complesso, l’esposizione media dei bambini è inferiore a quella degli adulti.
Il sottogruppo di popolazione con esposizione più elevata è quello dei soggetti che consumano alimenti locali/autoprodotti, soprattutto alimenti di origine animale (uova, carne bovina) e al contempo consumano a scopo potabile acqua di pozzo autonomo: in tal caso si possono raggiungere livelli espositivi elevati, soprattutto di PFOA, nella zona rossa A.
Lo studio condotto dall’ISS e promosso dalla Regione del Veneto, rappresenta il primo studio di esposizione ai PFAS realizzato in Italia e uno dei pochissimi realizzati a livello internazionale. Considerando la dimensione numerica e la varietà di alimenti di origine animale e vegetale presi in considerazione, lo studio assume estremo interesse anche a livello europeo, dove l’Autorità Europea per la sicurezza alimentare (EFSA) sta raccogliendo dati per raffinare le valutazioni del rischio realizzate su questi contaminanti emergenti.
Se da una parte lo studio rende merito alla Regione del Veneto per gli interventi realizzati sulla rete acquedottistica che hanno consentito di ridurre drasticamente l’esposizione, dall’altra mette in evidenza quanto le problematiche ambientali un tempo trascurate siano destinate a trasformarsi sempre più frequentemente in problematiche sanitarie.
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