«Una donna adirata può divorziare dal marito, prendersi i figli, intascare i soldi dei beni comuni, lasciare la città, risposarsi e iniziare una nuova vita. Ma se non perdona, potrebbe soffrire di problemi legati al continuo risentimento e contagiare i suoi figli influendo sulle loro future relazioni e sulla loro vita emotiva per decenni». Ad affermarlo è Robert Enright, pioniere degli studi scientifici sul perdono come processo, nel libro “Il perdono è una scelta” (ed. Salus Infirmorum).
Che il perdono sia una cosa seria lo dicono ormai oltre un migliaio di studiosi, che stanno cercando di capire come le persone perdonino e in che modo questa scelta influisca sulla salute psicofisica. Enormi sarebbero i vantaggi della scelta di perdonare in tutti gli ambiti della vita sociale: famiglia, lavoro, scuola. Una serie di circoli virtuosi che vanno da un miglioramento della qualità della vita a livello personale, al perfezionamento delle relazioni interpersonali a tutti i livelli.
Ma che cosa implica il perdono? Non è condonare, cioè rassegnarsi all’abuso soffrendo in silenzio. Non è scusare qualcuno, pensando non valga la pena di litigare per l’offesa o fingendo che non ci sia stato fatto del male o che chi ci ha offeso non intendesse realmente farlo. Non è dimenticare. Non è nemmeno giustificare o calmarsi. È piuttosto un processo che implica ridurre o eliminare sentimenti, pensieri e comportamenti negativi verso chi offende, sviluppando l’esatto contrario.
Come si fa a perdonare? È un lavoro duro e spesso doloroso: ciascuno ha bisogno del suo tempo. Di solito si perdona passando attraverso quattro fasi. La prima consiste nel rivelare il nostro disagio, alzando il livello di consapevolezza. Rendersi conto di essere adirati può fare molto male. D’altronde perdonare non è fingere che non sia successo nulla o nascondere il dolore. Se abbiamo sofferto, è bene essere sinceri con noi stessi.
La seconda fase implica la decisione di perdonare. È importante per fornire poi l’impegno necessario che ci porterà gradualmente a girare le spalle al passato, a guardare al futuro e ad essere determinati a continuare, perché non è un processo facile.
La terza fase consiste nel lavorare sul perdono. Decidere semplicemente di perdonare non basta. Occorre compiere anche azioni concrete per perdonare realmente. Significa lavorare sulla compassione, e per usare il linguaggio biblico «vincere il male con il bene».
Infine, la quarta fase porta a liberarsi dalla prigione emotiva in cui ci si rinchiude quando si è incapaci di perdonare e si prova rancore, risentimento e ira. La chiave che restituisce la libertà è per l’appunto il perdono, che implica proprio «il lasciarsi andare». Questo ci farà sentire meglio, e si sentirà meglio anche chi ha sbagliato contro di noi e riceverà il nostro “dono”. Provare per credere.
Fonte: libero
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