Cos’è «Giù le Mani dai Bambini», sotto il profilo dei contenuti? Tante cose.
Innanzitutto, è una scommessa azzardata e vinta. Quella di riunire intorno a un tavolo virtuale molte realtà del mondo associativo e cooperativo, le quali presentavano caratteristiche di così elevata incompatibilità da far pensare impossibile anche solo qualunque tipo di comunicazione che non fosse squisitamente formale. Cosa può avere in comune un sindacato studentesco con una università riservata alla terza età?
Un ospedale o una ASL con una associazione che fa della «non terapia farmacologia» la propria bandiera? Una associazione di psichiatri con un gruppo che promuove l’uso delle medicine alternative? Un movimento cattolico conservatore con un movimento laico di estrema sinistra? Un grande sindacato nazionale con un club di imprenditori e commercialisti? «Giù le Mani dai Bambini» è tutto questo e molto altro ancora: un vero e proprio «comitato», «associazione di associazioni», composto da realtà molto differenti l’una dall’altra, e con scopi a volte divergenti, che si riuniscono permanentemente intorno a un tavolo e accettano di dedicare parte del proprio tempo, della propria attenzione e delle proprie risorse a una missione percepita come comune. E se pensiamo che ad oggi «Giù le Mani dai Bambini» consorzia centoquaranta tra associazioni, grandi centrali associative, cooperative e altre realtà del terzo settore – un numero che continua senza sosta a crescere – ecco perché possiamo parlare di scommessa vinta.
Ma la forma non può essere disgiunta dalla sostanza; e ciò è tanto più vero nel nostro caso perché proprio su un tema così «sensibile» e concreto questi enti hanno trovato un punto d’incontro: la difesa del diritto alla salute dei minori, e dei bambini in particolare. I bambini e gli adolescenti come soggetti deboli ed esposti ad abusi, ma anche come soggetti «forti» nella loro potenzialità, perché, se tutelati adeguatamente – con attenzione discreta ma puntuale, senza interferenze e senza la pretesa di imporre «modelli» – sono in grado, con il tempo, di dare il meglio di se stessi e di ripagarci di ogni sforzo, foss’anche solo per il valore aggiunto in termini di energia e creatività che ognuno di loro ha la possibilità di conferire a questa nostra società adulta, un po’ spenta e, spesso, a corto di idee.
Sappiamo, tuttavia, che «occuparsi d’infanzia» significa dire tutto e nello stesso tempo non dire nulla. Di qui, l’esigenza di lavorare per priorità: una cosa alla volta, possibilmente ben fatta. Questo ci riporta immediatamente alla nostra Campagna (la «C» maiuscola è un nostro vezzo!), che ha visto la luce nell’ormai «lontano » ottobre 2003. I giornalisti nelle varie conferenze stampa spesso domandano curiosi: «come è nata questa iniziativa?». La risposta vera, lasciando da parte l’agiografia, è una sola: a tavola. Sì, proprio così: durante un pranzo di tutto rispetto, chiacchierando con alcuni amici medici.
Uno di loro, rientrato da un tour per impegni professionali in USA, ci mise in guardia sulla situazione in America, dove oltre undici milioni di minori sono in cura con farmaci psicoattivi nel tentativo – spesso vano – di risolvere così i loro malesseri interiori. Una cultura dell’ipermedicalizzazione tutta americana, quella che riduce ogni disagio a un problema di origine organica: il famigerato DSM (Diagnostic and Statistic Manual, la bibbia di una certa psichiatria), che pure ha avuto il merito di codificare dai deserti africani alle cime dell’Himalaya un linguaggio clinico comune, confeziona una sindrome per ogni occasione.
Tutto è suscettibile di diventare malattia psichiatrica: dall’insonnia, che invece può avere precise cause organiche nell’apparato respiratorio – e che così vengono trascurate –, al timore di perdere la metropolitana (sindrome da ansia del metrò!), passando attraverso la timidezza, una volta considerata un lato del carattere e oggi ridotta dai moderni stregoni a patologia, da curare – guarda caso – anche con terapia farmacologica, mentre addirittura alcune università sperperano soldi pubblici per cercare – invano, ovviamente – di tracciare il «gene della timidezza», così da poter intervenire manipolandolo. Fosse uno scherzo, ma così non è…
Ci chiedemmo allora: è un problema tutto americano? Stavamo pacificamente rassicurandoci con considerazioni del tipo «da noi non può accadere, in Europa c’è un modello culturale diverso», quando neppure un mese dopo venne pubblicata una ricerca francese, promossa su un ampio campione di 609 scuole, i cui risultati ci lasciarono senza parole: in quella nazione, il 12% della popolazione infantile entra nelle scuole elementari avendo assunto almeno una pastiglia di psicofarmaco. Fu il campanello d’allarme, la sveglia, l’urlo che ci svegliò dal torpore e che ci fece scattare sull’attenti: se succede nella vicina Francia, culturalmente a noi così simile, perché non potrebbe succedere anche in Italia? Ricordo benissimo ciò che pensai in quei momenti, meditando su quel malcostume: «in Italia non possiamo prenderci carico dei mali del pianeta, ma questo è il nostro paese, voglio un muro intorno alla nazione, e non lo scavalcherete mai…».
Le scelte a quel punto erano due: aspettare gli sviluppi degli eventi, oppure affrontare da subito il problema. Decidemmo di giocare d’anticipo, perché se avevamo una tenue speranza, essa era quella di maturare un adeguato vantaggio in termini di consolidamento del consenso tra il pubblico. Sappiamo che le multinazionali del farmaco contano su fondi ingenti e su una robusta «capacità di fuoco» in termini di marketing, pubblicità e manipolazione della pubblica opinione. Noi potevamo, e possiamo, usare solo due armi: l’onestà intellettuale di buona parte della comunità scientifica nazionale, meno sensibile alle lusinghe del denaro rispetto ai colleghi d’oltreoceano, e la schiettezza della gente della penisola, che più che in altri paesi sembra avere sinceramente a cuore il futuro delle nuove generazioni. Forti di questi due presupposti, e con qualche risorsa umana e finanziaria, abbiamo iniziato ad attivare la nostra rete di relazioni e a predisporre un piano d’azione. Iniziammo – indimenticabili, quelle prime fasi – a «testare» l’interesse dei nostri concittadini, a Torino, preparando degli enormi e buffi volantini, fotocopiati su cartoncino all’Ospedale Molinette (terzo polo ospedaliero d’Italia, diventerà di lì a poco co-promotore della Campagna) e distribuendoli in scuole, studi medici, e in occasione di eventi culturali coinvolgenti insegnanti e famiglie.
Partecipammo a qualche convegno e rilasciammo alcune interviste. Insomma, muovevamo i primi passi. La sensazione era che si trattava di un problema attualissimo: era, infatti, in pieno svolgimento il famigerato «Progetto Prisma», un’indagine multicentrica finanziata con fondi del Ministero della Salute, ma gestita da poli di ricerca privati, che sappiamo essere anche tra i più attivi recettori dei finanziamenti alla ricerca erogati in Italia da «big pharma». Questa indagine mise in luce un risultato tanto clamoroso quanto prevedibile, considerate le modalità di svolgimento della ricerca, e la tipologia degli enti che la coordinavano: quasi il 10% dei bambini italiani, praticamente 1 su 10, a loro dire soffrirebbe di turbe mentali, disagi della psiche, sindromi varie. Curabili in molti casi – ma che strano! – con le più opportune terapie farmacologiche.
Eravamo, quindi, sulla strada giusta: dovevamo attivarci su larga scala nel paese per prevenire questo genere di abusi. L’idea non era quella di contrastare gli interessi dell’industria del farmaco o continuare a sviluppare una, a nostro avviso, inutile cultura proibizionistica sul tema psicofarmaci, bensì di riaffermare dei precisi limiti di carattere etico: sì, ai farmaci psicoattivi, ma solo quale ultima risorsa terapeutica e non come risposta di prima linea; no comunque, agli psicofarmaci sui minori e sui bambini soprattutto se il disagio è trattabile con un intervento non farmacologico. No, in senso assoluto, a quegli psicofarmaci con un rapporto rischio/beneficio negativo, perché l’idea che alcune molecole «basta usarle bene», quando sono in realtà pericolose negli effetti iatrogeni a medio-lungo termine, è solo un mito. No, alla cultura del farmaco inteso come «facile risposta» e come scorciatoia gradualmente deresponsabilizzante; sì, invece, a una informazione sufficientemente corretta, completa e obiettiva, tale da garantire ai genitori la possibilità di sviluppare un eventuale consenso alla terapia realmente informato; sì, soprattutto, alla riaffermazione del pieno diritto alla scelta terapeutica, perché è falso sostenere che l’unica, o la migliore, alternativa sia il farmaco, mito che si accompagna a quello in voga nel XX secolo in occidente – per fortuna anch’esso sul viale del tramonto – dell’origine strettamente biologica di ogni disagio della psiche e del comportamento.
Forti di questo «manifesto», che ritenevamo, e riteniamo tutt’ora, tanto netto e senza equivoci quanto equilibrato, abbiamo deciso nell’aprile del 2004, dopo ormai 6 mesi di «test», di attivare il nostro sito internet, diventato in breve tempo il portale di informazione più navigato in Italia su questa materia. Scelta vincente, in un mondo dove l’informazione si muove sempre più su canali virtuali e, dove, senza alcuna presenza sulla rete, si rischia di non esistere. Di lì, il boom: da zero a venti milioni di contatti sul portale in trenta mesi di presenza on line; da 4 a 240.000 tra medici, specialisti, pedagogisti e altri addetti ai lavori che hanno sottoscritto le nostre tesi scientifiche, in Italia e all’estero, individualmente o tramite le rispettive associazioni di categoria; grandi nomi dello mondo spettacolo che hanno prestato il loro volto per veicolare il nostro messaggio; collaborazioni con primari enti pubblici e privati, dal Ministero Attività Culturali al Teatro Alla Scala di Milano, e molti altri; una presenza media puntuale e costante, con centinaia di minuti di interviste e «speciali» ogni anno su TV radio e giornali; 30 filmati prodotti per noi da una casa di produzione indipendente, cosa che fa di «Giù le Mani dai Bambini» la ONLUS con la più ricca bacheca audio-video d’Italia; oltre 250.000 pubblicazioni informative distribuite gratuitamente su richiesta della cittadinanza in occasione dei vari convegni e seminari.
La Campagna ha inevitabilmente esteso la propria sfera di influenza anche all’estero: ad esempio in Spagna, Francia e Svizzera, dove si è chiesto a gran voce un intervento per replicare l’iniziativa sul posto; in Canada, dove una compagnia teatrale ha proiettato videoclip «Giù le Mani dai Bambini» nei principali teatri prima dell’apertura del sipario dei propri spettacoli; in Australia, dove il Parlamento di Camberra durante una sessione dedicata al problema della disinvolta medicalizzazione dei disagi infantili ha citato a verbale «…the Italian Campaign “Giù le Mani dai Bambini”…» come un’esperienza di riferimento; e ancora in altre nazioni, dalle quali diversi affermati specialisti ci hanno contattato manifestando il proprio appoggio e sottoscrivendo le nostre tesi scientifiche (Argentina, Australia, Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Irlanda, Israele, ex Yugoslavia, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Stati Uniti e Svezia).
Infine, con nostro grande piacere, viene pubblicato anche un libro, che ha come titolo il nome stesso della Campagna (“Giù le Mani dai Bambini: Iperattività, Depressione ed altre moderne malattie – La salute dei minori ed il marketing del farmaco”), per il quale la casa editrice ha accettato di devolvere buona parte degli utili alla Campagna stessa, per la stampa di materiale da distribuire alla cittadinanza, al fine di aumentare ancor più la soglia di attenzione sul problema e migliorare il profilo di prevenzione. Ecco quindi cosa vuol essere «Giù le Mani dai Bambini»: una campagna informativa che ha come scopo la sensibilizzazione del grande pubblico e la formazione di insegnanti e genitori sul problema del sempre più frequente abuso nella somministrazione di psicofarmaci a bambini e adolescenti.
Come abbiamo ricordato, i mass-media, negli ultimi anni, hanno sempre più frequentemente riportato il parere di numerosi addetti ai lavori, critici nei confronti delle strategie dell’industria del farmaco, che sostengono la tesi secondo la quale alcune case farmaceutiche starebbero procedendo all’individuazione di nuovi segmenti di mercato per promuovere le vendite di diversi tipi di prodotti farmaceutici: secondo queste fonti, la fascia d’età dell’infanzia è stata identificata dalle multinazionali del farmaco come un segmento ancora vergine e suscettibile quindi di un forte sviluppo. La Campagna non è una «crociata populista» contro l’una o l’altra multinazionale o contro specifici prodotti farmacologici, né disconoscere a priori l’esistenza di patologie proprie dell’infanzia e dell’adolescenza.
L’unico scopo del progetto è quello di sensibilizzare la cittadinanza sui rischi di abuso, evidenziando con obiettività i vantaggi e gli svantaggi della soluzione farmacologica, e fornendo quindi gli strumenti per porre il bambino e la sua famiglia al centro dell’attenzione tutelando i loro diritti. Diverse ricerche scientifiche indipendenti hanno dimostrato, infatti, oltre ogni ragionevole dubbio, che esistono terapie pedagogiche, psicoterapie e altre, scientificamente testate, degne di essere prese in considerazione per la soluzione dei disagi dell’infanzia e dell’adolescenza. Prudentemente, numerosi esperti sostengono la tesi secondo cui, prima di procedere alla massiccia somministrazione di uno psicofarmaco volto a «curare nascondendo i sintomi» – senza risolvere il vero problema alla fonte del disagio –, sia indispensabile valutare con grande attenzione la situazione clinica e psicologica del bambino nel suo complesso, e per questo le figure professionali del pediatra, dello psicologo, del pedagogista e del nutrizionista devono tornare protagoniste.
Al contrario, lo psicofarmaco, diventato quasi «una moda», è oggi troppo spesso la «soluzione» più facile: la pastiglia cui delegare con superficialità la soluzione di ogni problema, inclusi quelli di carattere squisitamente sociale e ambientale. Nonostante queste molecole fossero già all’epoca da tempo sul mercato, e quindi non mancassero le evidenze sperimentali circa il loro rapporto rischio/beneficio, nel 1993 il Dipartimento dell’Educazione degli USA incaricò James M. Swanson, direttore del centro studi sull’ADHD all’Università della California, Irvine (UCI), noto sostenitore della tesi biologica dell’ADHD e favorevole all’uso degli psicofarmaci sui minori, di condurre una ricerca che facesse il punto della situazione in merito all’efficacia del Ritalin. Furono consultate 300 riviste (9000 articoli), spaziando su 55 anni di letteratura. Questi i risultati, oltremodo deludenti:
- i benefici a lungo termine non sono stati verificati sperimentalmente;
- i benefici sul breve termine degli stimolanti non devono essere considerati una soluzione permanente sui sintomi cronici dell’ADHD;
- gli stimolanti possono migliorare l’apprendimento in alcuni casi ma danneggiarlo in altri;
- nella prassi le dosi prescritte possono essere troppo alte per l’effetto ottimale sull’apprendimento, e la durata dell’effetto troppo breve per agire sul risultato scolastico;
- non ci sono grandi effetti sulle abilità e processi mentali superiori, genitori e insegnanti non devono aspettarsi significativi miglioramenti nello studio o in abilità atletiche, abilità sociali, apprendimento di nuovi concetti;
- nessun miglioramento negli aggiustamenti a lungo termine, insegnanti e genitori non devono aspettarsi miglioramenti sotto questo profilo.
La cura è un procedimento terapeutico che, rimuovendo le cause che hanno generato la patologia, porta alla guarigione. Il sollievo e la remissione dei sintomi, per quanto siano eventi importanti, non qualificano un intervento terapeutico come cura. Sia la cura che il trattamento sintomatico devono comunque garantire il rispetto della dignità umana e l’integrità psicofisica, condizione che la maggior parte degli psicofarmaci attualmente in commercio non sono in grado di rispettare.
Non ci sono dubbi che tali prodotti farmaceutici hanno effetti collaterali anche gravi, inclusa la morte del paziente. I loro effetti si manifestano con la soppressione dei sintomi in presenza di assunzione regolare del farmaco, in quanto l’interruzione del trattamento farmacologico fa riemergere la situazione antecedente al periodo di regolare assunzione. Questo è il motivo per cui si rende necessaria la somministrazione a lungo termine, anche quando essa è sconsigliata dagli stessi specialisti ed a volte dalle stesse industrie produttrici.
In un documento datato Dicembre 1999 «Long-Term Effects of Stimulant Medications on the Brain» il NIMH (National Institute of Mental Health) dichiara «Gli stimolanti sopprimono i sintomi dell’ADHD ma non curano i disordini, e come risultato i bambini etichettati ADHD sono spesso trattati con stimolanti per molti anni…». La terapia con questi prodotti farmaceutici di per se non migliora il rendimento scolastico dei bambini, in quanto i procedimenti legati all’apprendimento sono qualcosa di molto più complesso del semplice “prestare attenzione”. Si può pertanto concludere che gli psicofarmaci di per se non migliorano l’apprendimento scolastico, che non curano la presunta patologia ADHD, piuttosto agiscono sui sintomi permettendo una migliore accettazione sociale dei bambini da parte degli adulti. Poca attenzione è stata dedicata a studiare le ripercussioni psicopatologiche che i trattamenti farmacologici hanno sui bambini, ed anche nuove molecole
commercializzate come “novità”, apparentemente prive degli effetti collaterali lamentati per gli stimolanti, sono in realtà banali “rivisitazioni” di psicofarmaci tristemente conosciuti in passato per i potenziali effetti collaterali dannosi nel medio-lungo periodo. I casi meritevoli di attenzione sotto il profilo clinico – sono una esigua minoranza -, dovrebbero essere prioritariamente trattati con strumenti di carattere pedagogico (pedagogia tradizionale e clinica), strumenti per i quali è in corso anche in Italia una vera e propria codificazione sotto forma di protocolli standard di intervento specificatamente mirati. La stessa tesi della “malattia” resta una mera ipotesi, e l’utilizzo di termini quali «malattia» e «malattia mentale» sono quindi a tutt’oggi illegittimi sul piano scientifico. Il lavoro di “Giù le Mani dai Bambini” ha evidenziato come l’ADHD sia, nella migliore delle ipotesi, un semplice elenco di comportamenti disfunzionali, troppo poco per identificare una malattia. L’insufficiente definizione di questi comportamenti-sintomo dal punto di vista operazionale, rende persino impossibile configurare nettamente l’ADHD come una psicopatologia. Sulla base delle risultanze scientifiche attualmente disponibili, la diagnosi di ADHD rischia di essere sostenuta da motivazioni di carattere principalmente economico e non indirizzata al reale beneficio del bambino/paziente. Se si analizzano con attenzione i commenti ai test sperimentali che gli specialisti utilizzano per determinare le soglie di attenzione ed iperattività, emergono dati che ci inducono a riconsiderare le nostre convinzioni.
Emerge che i bambini sono in grado di prestare attenzione ai compiti loro graditi, mentre non lo sono per quelli rilevanti per l’apprendimento, se nella loro percezione sono «meno graditi”. Si parla pertanto di “carenza di attenzione in un contesto di scarsa motivazione” o di «ansia da apprendimento», nonché di «comportamenti iperattivi» in un contesto famigliare in cui emergono gravi psicopatologie. Pare almeno discutibile che tutto questo possa tout-court essere trasformato in una malattia di carattere biologico, mentre appare evidente come siano implicate dinamiche personali e sociali di varia natura che sono state a tutt’oggi in larga parte trascurate dall’indagine scientifica. A fronte di disturbi dell’attenzione e di iperattività, sarebbe necessario effettuare un serio screening medico standardizzato ed un’approfondita analisi delle relazioni sociali dei piccoli pazienti, del loro reale grado di apprendimento scolastico e dei molti altri fattori che possono essere alla causa dei comportamenti anormali del bambino. Si deve pertanto concludere che la diagnostica non ha ancora una legittimazione scientifica tale da permettere una diagnosi certa al di là di ogni ragionevole dubbio.
Allora, è il metodo di approccio etico che deve cambiare radicalmente, dal momento che abbiamo dimostrato inequivocabilmente che le certezze incrollabili di oggi possono tramutarsi rapidamente nei dubbi e nelle incertezze di domani. Gli esami di laboratorio sui topi non possono continuare ad essere l’unica valida guida, soprattutto quando sono in gioco la salute e la vita dei nostri bambini, ovvero il nostro futuro. L’arroganza di certi «sacerdoti della morale scientifica» deve lasciare il posto a un approccio decisamente più umile e prudente. Negli ultimi anni sono comparse sempre più numerose ricerche che individuano correlazioni di varia natura con l’ADHD. Si tratta di patologie fisiche, reazioni a terapie mediche, condizioni ambientali di vario tipo e di gravidanza sfavorevoli, psicopatologie, in grado di mimare la sintomatologia dell’ADHD raggiungendo i medesimi criteri diagnostici. La nosografia ADHD ha di fatto l’effetto di depistare i medici che omettono di indagare queste cause, con un danno potenzialmente rilevante per la salute del minore. Non possiamo dimenticare che studiare e stare fermi ed attenti a scuola sono condizioni che richiedono a tutti i bambini un sacrificio che viene diversamente assolto in armonia con la curva di Gauss, e che le variabili che possono spiegare tali variazioni sono talmente numerose che per ora non siamo in grado di valutarle ed esprimere giudizi clinici. Tutte queste correlazioni che sono emerse possono essere reinterpretate come cause? Possiamo ipotizzare che la sintomatologia ADHD sia in realtà una costellazione aspecifica di sintomi, indicatori di un disagio della persone, che rimandano alle più svariate cause?
Possiamo abolire la nosografia ADHD con il suo fardello ideologico così come anni fa si fece con l’omosessualità (originariamente, come a tutti noto, classificata come malattia mentale al pari dell’ ADHD)? Questa è la vera sfida che abbiamo di fronte, una ipotesi che merita tutta l’attenzione scientifica di cui siamo capaci, un diverso modo di fare sperimentazione, ed un approccio eticamente diverso all’utilizzo degli psicofarmaci su bambini ed adolescenti, che dovrebbe essere ispirato alla massima cautela e come ultima risorsa in casi estremi, al fine di prevenire e contenere i possibili rischi di abuso su larga scala, in più occasioni documentati sia in letteratura scientifica che da autorevoli fonti di informazione.
Nell’attesa di fare chiarezza tra la giungla di dati scientifici spesso contrastanti tra loro, la regola può essere una sola: quella che invita alla massima prudenza. «Giù le Mani dai Bambini» è, su questi temi, la voce «contro» più autorevole che sia possibile rintracciare in Italia: il libro recentemente pubblicato vuole anche essere la testimonianza dello sforzo di fare chiarezza su questo problema ad opera della parte più onesta dei cittadini del nostro paese. Concludiamo con una carrellata di citazioni sull’argomento, sollecitando l’attenzione dei lettori su di un aspetto in particolare: la “buona prassi” costituita dal riuscire ad ottenere e coagulare il consenso di molti leader d’opinione italiani intorno ad un tema che mai prima d’ora era stato trattato in maniera così sistematica ed organica. Alcuni specialisti -che già prima dell’attivazione della Campagna avevano avviato una riflessione critica su quanto abbiamo esposto -hanno trovato in “Giù le Mani dai Bambini” un funzionale “megafono” per amplificare il proprio pensiero. Altri, che mai si erano soffermati a riflettere approfonditamente su questi argomenti, l’hanno fatto, utilizzando la Campagna stessa come un’ “incubatore di idee” ed un utile strumento di approfondimento anche scientifico. Insomma, leggendo le seguenti dichiarazioni, pronunciate da personalità del mondo accademico, sociale e politico, dovrebbe essere chiaro cosa intendiamo quando parliamo di “un’iniziativa in grado di fare opinione”…
“L’istituzione di questo Registro per schedare i bimbi sospettati di ADHD, senza le garanzie adeguate che meriterebbe, è una trappola: si rischia di trattare con Ritalin bimbi che non dovrebbero a monte neppure entrare in terapia. Il grande problema che sta venendo ignorato è quello del protocollo terapeutico, carente e fortemente orientato sulla soluzione farmacologica, con il risultato che le diagnosi rischiano di venir fatte a ‘maglie troppo larghe’ e le alternative al farmaco non valutate adeguatamente come meriterebbero”
(Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva)
“I questionari che vengono utilizzati per diagnosticare questi disagi dell’infanzia sono altamente soggettivi ed impressionistici. Le differenze d’esperienza, tolleranza e di stato emotivo dell’intervistatore e del bambino intervistato non vengono tenute in alcun conto, e nonostante questa vaghezza, e nonostante il fatto che le scale di valutazione utilizzate non soddisfino i criteri psicometrici di base, i sostenitori di questo approccio pretendono che questi questionari forniscano una diagnosi accurata, ma così non è, e non sarà la sola istituzione di un Registro che risolverà la questione”.
(prof. William Carey, primario e professore di Pediatria Clinica dell’Università della Pensylvania, primario del reparto di Pediatria Comportamentale dell’Ospedale di Philadelphia, membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze USA)
“Parlando di disturbi del comportamento, ed in particolare di sindromi quali ad esempio il deficit di attenzione e iperattività (ADHD), siamo più che altro di fronte ad una “moda” ed a diagnosi inconsistenti e vaghe. Queste diagnosi, così come vengono oggi semplicisticamente perfezionate, non si possono e non si devono fare, ed il Registro di per se servirà a poco, se non si rivedranno completamente tutti i protocolli: cambierà qualcosa se andremo ad iscrivere in un Registro bambini che a monte non sarebbero dovuti essere sottoposti a terapia a base di Ritalin?”
(Emilia Costa, titolare della 1° Cattedra di Psichiatria dell’Università di Roma La Sapienza)
“I medici sono chiamati ad una piena responsabilizzazione ed a tutelare davvero il diritto alla salute dei pazienti, specie se minorenni. Non si può pensare di risolvere tutto con l’apertura di un registro, e si può continuare a prescrivere psicofarmaci contestati ed a rischio di abuso: questo atteggiamento ormai, come dimostrano anche le cronache giornalistiche, è definitivamente sul banco degli imputati una settimana si ed una no”
(prof. Claudio Ajmone, psicoterapeuta, membro dell’Associazione Europea di Psicoanalisi)
“Il Ministero per la Salute vuole creare una ‘rete di controllo’ sui bambini, che verranno inquadrati e schedati per questi presunti problemi comportamentali, e poi verranno sottoposti a terapie a base di psicofarmaci stimolanti. Poi compileremo la lista dei morti come negli Stati Uniti. Lo voglio dire chiaramente: il Ministero non sa quello che fa ed a cosa andrà incontro”.
(prof. Giorgio Antonucci, psicoanalista, già collaboratore di Franco Basaglia)
“Guardate la realtà nella quale facciamo vivere i nostri figli: troppo spesso ci sono aspettative soffocanti e motivi di disagio che si riversano sui più deboli, e che noi adulti diamo per scontato. Perché nelle famiglie questi problemi non vengono affrontati? Non stupiamoci allora se poi i per bambini sorgono problemi, anche gravi”
(prof. Franco Blezza, Ordinario di Pedagogia Generale dell’Università di Chieti)
“Ho la netta sensazione che non ci si renda pienamente conto di cosa implica somministrare psicofarmaci stimolanti ad un bambino di 5 o 10 anni, del tipo di impatto sul suo metabolismo, sul sistema ormonale, sul suo sistema nervoso in via di sviluppo”
(Luigi Cancrini, psichiatra, Commissione Parlamentare sull’Infanzia)
“Esaminiamo la realtà dei fatti: cito a caso uno dei ‘big five’ nel settore del giornalismo scientifico, il ‘New England Journal’, è finanziato per il 74% dall’industria farmaceutica. Ecco allora il vero problema: l’etica nelle ricerche. Perché non iniziamo a pubblicare anche le ricerche che hanno dato esito negativo, che sono la stragrande maggioranza?”
(dott. Paolo Roberti, primario di Psichiatria, Coordinatore del Comitato Medicine Non Convenzionali)
“Prescrivere psicofarmaci a bambini ed adolescenti pretendendo di curare i loro disagi con una pastiglia è pura illusione, un’idea grave e colpevole, una semplificazione ingiustificabile. Se c’è l’idea ad esempio che basti un antidepressivo per riacquistare il buon umore siamo finiti fuori strada: un elemento chimico di per se può attenuare un problema, ma non risolve proprio nulla”.
(Cardinale Ersilio Tonini)
“Purtroppo, il farmaco soffre ad essere considerato una merce come tutte le altre: ormai viene venduto utilizzando raffinate tecniche di marketing, al pari di un telefonino od un automobile. Queste diagnosi vengono perfezionate indipendentemente dall’ambiente, quindi si attribuisce al bambino una sofferenza ‘sradicata’ dalle sue radici sociali, e questo è un grave errore. Inoltre la diagnosi è decisamente pericolosa, perché la terapia a base di psicofarmaci genera preoccupanti effetti collaterali, senza considerare le implicazioni del dire con tale leggerezza ad un piccolo bambino di 7/8 anni ‘tu sei un malato di mente’”
(prof. Agostino Pirella, Ordinario di Storia della Psichiatria dell’Università di Torino)
“Sugli effetti degli psicofarmaci ai minori purtroppo non ci sono grandi studi né esistono protocolli diagnostici che consentano una logica seria nella prescrizione. Ritengo indispensabile un’attenzione scrupolosa nel momento in cui questi farmaci vengono prescritti per bambini e adolescenti”
(Sen. Anna Maria Serafini, Presidente Commissione Bicamerale per l’Infanzia)
“Non posso tacere che la “medicalizzazione del disagio” è la soluzione estrema del problema. Trovo “Giù le Mani dai Bambini” un’iniziativa di estremo interesse nel momento attuale, in cui il problema è emerso, anche alla luce diegli ultimi dati statistici -in tutta la sua rilevanza. Sono favorevole ad iniziative coem questa, mirate ad individuare il perimetro del fenomeno”.
(On. Dorina Bianchi, VicePresidente Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati)
“Questo tipo di interventi farmacologici sull’infanzia, a base di psicofarmaci, vanno ridotti al minimo e, ogni volta che è possibile, accuratamente evitati”.
(Sen. Paola Binetti, Commissione Affari Sociali del Senato)
“Si fa presto a dire ADHD. E ancora, è proprio vero che tutti i bambini sono interessati dalla sindrome ADHD? E, aggiungo: esiste la sindrome da ADHD così come viene descritta? E come vengono eseguite queste diagnosi, con quali criteri, con quali percorsi? Fino a quando non si troverà un punto di incontro nella risposta a questi interrogativi ai bambini verranno somministrati sempre più psicofarmaci nascondendosi dietro l’alibi di una diagnosi. Un bambino trattato con psicofarmaci, sarà probabilmente un adulto medicalizzato, disturbato, stravolto. Io sono anche un padre, e non vorrei mai che alle mie figlie potesse accadere tutto questo”.
(Prof. Massimo Di Giannantonio, Ordinario di Psichiatria all’Università di Chieti)
“Sicuramente per questo problema dell’abuso nella somministrazione di psicofarmaci ai bambini ci sono pressioni fortissime delle lobby del farmaco, ho proprio pochi dubbi a questo proposito In Italia forse la situazione è ancora un po’ diversa, ma io temo che ci siano anche a casa nostra questi interessi, che comunque parlano e riescono a sussurrare alle orecchie delle nostre strutture preposte”
(On. Luana Zanella, Commissione Parlamentare per l’Infanzia)
“Nessuno psicofarmaco è sicuro: l’industria avrebbe bisogno di anni ed anni per la sperimentazione su di ogni molecola, per acquisire delle certezze, e nessuno può permetterselo. Noi poi al giorno d’oggi siamo innamorati delle ‘griffe’: posso personalmente testimoniare che sono stati eliminati dal mercato tutta una serie di farmaci utili, solo per far spazio a nuovi prodotti ‘di moda’, più rischiosi e molto meno sperimentati”
(Loris Iacopo Bononi, già elemento di punta della ricerca internazionale della multinazionale farmaceutica Pfizer)
“Così i trasforma una generazione in piccoli ‘zombie’. In mancanza di patologie riscontrate scientificamente, i bambini vanno aiutati ed accompagnati nella loro crescita. Imbottirli di psicofarmaci li fa sentire solo dei malati quando non lo sono. In Parlamento alzeremo la voce e faremo ciò che è necessario per impedire questa follia”.
(Laura Bianconi, parlamentare, Commissione Parlamentare sull’Infanzia)
“Siamo molto preoccupati, e siamo contrari a questa medicalizzazione del disagio: come ha chiesto ‘Giù le Mani dai Bambini, è necessario aprire un dibattito immediatamente. Non ripetiamo gli errori degli Stati Uniti, che sono caduti vittima delle sconsiderate pressioni delle case farmaceutiche, le quali anche in Italia evidentemente sanno ‘sussurrare’ alle orecchie giuste. Il farmaco non può e non deve rappresentare una scorciatoia: è indubbio che nell’immediato alcuni psicofarmaci possano ottenere effetti positivi, ma a quale prezzo? Si agisce solo sui sintomi, ignorando completamente le cause profonde di questi disagi”
(Luana Zanella, parlamentare, Commissione Parlamentare sull’Infanzia)
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