Monsanto: informazione avvelenata. Mascherati effetti cancerogeni di glifosato

Documenti strategici, email, contratti riservati. I Monsanto papers continuano a rivelarci piccoli e grandi segreti. Dopo una prima parte pubblicata a giugno di quest’anno Internazionale 1214), Le Monde ha continuato a studiare le migliaia di documenti interni che il colosso statunitense dell’agrochimica è stato costretto a rendere pubblici in seguito a un’azione legale avviata negli Stati Uniti.

Sono aumentate le denunce contro la Monsanto presentate dai cittadini statunitensi: finora sono 3.500. Gli autori sono persone colpite da un linfoma non hodgkin, un raro tumore del sangue, o i loro parenti.
Tutti attribuiscono il tumore all’esposizione al glifosfato, la sostanza alla base del diserbante della Monsanto lanciato sul mercato nel 1974 con il nome di Roundup e diffuso in tutto il mondo perché è tollerato dai semi geneticamente modificati. La Monsanto deve la sua fortuna proprio al glifosfato.
Ma a quale prezzo?

L’ultima parte dei Monsanto papers, resa pubblica la scorsa estate, fa luce su un’attività finora poco conosciuta della multinazionale statunitense: il ghostwriting. Considerata una grave forma di frode scientifica, consiste nello scrivere testi che poi vengono firmati da altri, cioè nell’agire come “autore fantasma”. I dipendenti di un’azienda scrivono articoli e studi scientifici e poi alcuni scienziati, che non hanno rapporti formali con l’azienda, li firmano fornendo alla pubblicazione il prestigio della loro reputazione.
Questi scienziati sono ovviamente retribuiti per il prezioso servizio di “riciclaggio” dei messaggi dell’industria. La Monsanto ha usato segretamente questa strategia.

Prendiamo il caso del biologo statunitense Henry Miller, associato alla Hoover institution, il celebre centro studi dell’università di Stanford. Oggi Miller è diventato un editorialista a tempo pieno e firma diverse volte al mese articoli molto polemici sulla stampa statunitense. Il Wall Street Journal e il New York Times ospitano regolarmente i suoi attacchi contro l’agricoltura biologica e le sue difese degli organismi geneticamente modificati (ogm) o dei pesticidi.
Anche il sito di Forbes pubblica i suoi articoli. Ma ad agosto, all’improvviso, tutti gli articoli firmati da Miller sono scomparsi dal sito della famosa rivista economica.

“Chi scrive sul nostro sito firma un contratto che lo obbliga a dichiarare qualunque potenziale conflitto d’interessi e a pubblicare solo articoli originali”, spiega a Le Monde una portavoce di Forbes. “Quando abbiamo scoperto che Miller aveva violato i termini del contratto, abbiamo ritirato tutti i suoi articoli dal nostro sito e interrotto la collaborazione”.
I documenti lo mostrano chiaramente: alcuni testi di Miller erano preparati da una squadra della Monsanto. La collaborazione tra lo scienziato e l’azienda è cominciata nel febbraio del 2015. All’epoca la multinazionale si preparava a gestire una crisi importante, perché l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) stava per pubblicare la sua valutazione del glifosfato.
La Monsanto sapeva che il verdetto dell’agenzia legata all’Organizzazione mondiale della sanità, atteso per il marzo del 2015, sarebbe stato molto critico. In effetti il 20 marzo 2015 il glifosfato è dichiarato genotossico (capace di danneggiare l’informazione genetica all’interno di una cellula), cancerogeno per gli animali e “probabilmente cancerogeno” per gli esseri umani.
La Monsanto decide di contrattaccare.

Un dirigente dell’azienda contatta per email Miller, che aveva già scritto su questo argomento: “Vuole scrivere altre cose sull’Iarc, sulla sua attività e sulla sua decisione discutibile? Ho informazioni importanti e se vuole gliele posso dare”. Miller accetta, ma a condizione di “partire da una bozza di alta qualità”. E in effetti il testo che gli viene trasmesso sembra essere di “alta qualità”, perché il 20 marzo viene pubblicato dal sito di Forbes quasi senza modifiche.
Né Miller né la Hoover institution hanno risposto alle domande di Le Monde. La Monsanto, invece, sostiene che “alcuni suoi scienziati hanno fornito la versione iniziale, che Miller ha corretto e inviato per email. I punti di vista e le opinioni espresse in quell’articolo sono dell’autore”.

Questo è solo un caso tra i tanti. La Monsanto, infatti, non si limita a convincere l’opinione pubblica attraverso mezzi d’informazione per il grande pubblico come Forbes. Secondo alcuni scambi di email tra i tossicologi del gigante dell’agrochimica, questa tecnica è stata usata anche per articoli scientifici pubblicati su riviste specializzate.
Nel novembre del 2010 Donna Farmer, una tossicologa della Monsanto, invia per email le “prime 46 pagine” di un testo.
Il destinatario dell’email lavora per Exponent, uno studio di consulenza specializzato in questioni scientifiche, e deve seguire la pubblicazione dell’articolo su una rivista scientifica. Ma sulla lista degli autori il nome di Farmer non c’è, lei stessa l’ha cancellato.
In seguito, infatti, lo studio sarebbe apparso sulla rivista Journal of Toxicology and Environmental Health, Part B, con la sola firma di consulenti esterni. La ricerca, ovviamente, sosteneva l’assenza di rischi del glifosfato per lo sviluppo dei feti e la riproduzione.

Comunicazioni interne
Il ghostwriting è molto diffuso nel settore farmaceutico, ma i Monsanto papers confermano che svolge un ruolo importante anche nell’industria chimica e agrochimica.
Sembra così radicato nella Monsanto, che i suoi stessi dipendenti usano apertamente questo termine in diverse occasioni nelle loro comunicazioni interne.
La multinazionale vuole contrattaccare soprattutto sul fronte scientifico per influenzare il verdetto dell’Iarc. Nel febbraio del 2015 William Heydens, il responsabile della Monsanto per la sicurezza dei prodotti regolamentati, scrive ai suoi colleghi che bisogna “impegnarsi a fondo coinvolgendo esperti dei principali settori”. Questa strategia costa 250mila dollari, precisa Heydens. Un’altra opzione, “meno costosa e più fattibile”, sarebbe quella di “coinvolgere solo gli esperti dei settori dove ci sono dispute e fare da ghostwriter per le parti riguardanti l’esposizione e la genotossicità”.
La Monsanto chiede alla Intertek, uno studio di consulenza, di raccogliere un gruppo di una quindicina di esperti esterni.
Alcuni lavorano nel mondo accademico, altri sono consulenti privati. In cambio di soldi, questi esperti devono redigere cinque sintesi della letteratura scientifica di vari settori (tossicologia, epidemiologia, studi animali e così via) sui legami tra il tumore e il glifosfato. Pubblicati nel settembre del 2016 in un numero speciale della rivista Critical Reviews in Toxicology, i cinque articoli concludono – non certo a sorpresa – che il glifosfato non è cancerogeno.

Anche se il finanziamento della Monsanto è chiaramente segnalato alla fine di ogni articolo, una piccola indicazione complementare offre una prova del rigore e dell’indipendenza di queste ricerche: “Né i dipendenti della Monsanto né i suoi avvocati hanno controllato i testi del gruppo di esperti prima che fossero presentati alla rivista”.
In realtà non solo alcuni dipendenti della Monsanto “hanno controllato” gli articoli, ma li hanno anche ampiamente corretti e forse scritti.


L’8 febbraio 2015 il responsabile della sicurezza dei prodotti regolamentati Heydens invia alla Intertek una versione dell’articolo principale corretto personalmente.
Contiene circa cinquanta correzioni.
“Ho controllato l’insieme del documento, ho indicato quello che secondo me dovrebbe restare e quello che può essere cancellato e ho riscritto alcune parti. Ho anche aggiunto del testo”.
Altre email interne evidenziano gli interventi editoriali della Monsanto. L’azienda vuole avere l’ultima parola su tutto, perfino sull’ordine delle firme degli esperti, indicando in questo modo chi ha realizzato la maggior parte del lavoro. Inoltre vorrebbe passare sotto silenzio la partecipazione di alcuni esperti selezionati dalla Intertek.

Uno scambio particolarmente duro ha luogo tra Heydens – sempre lui – e uno degli scienziati assunti dalla Intertek, John Acquavella.
La Monsanto conosce bene Acquavella, che ha lavorato per quindici anni nell’azienda come epidemiologo. Proprio perché è un ex dipendente, Heydens non vuole che compaia tra gli autori dell’articolo che ha contribuito a scrivere e per il quale ha ricevuto un compenso di 20.700 dollari (18.300 euro), come indica la sua fattura.
La Monsanto vuole mettere in evidenza l’indipendenza dei cinque studi: i nomi degli ex collaboratori della Monsanto non devono apparire. La motivazione è brutale.
“Non vedo il mio nome nella lista degli autori”, si stupisce per email Acquavella. “I vertici hanno deciso che non potremo usarti come autore a causa del tuo passato nella Monsanto”, risponde Heydens. “Non penso che gli esperti del mio gruppo saranno d’accordo”, ribadisce Acquavella.
“Questo si chiama ghostwriting ed è contrario all’etica professionale”. Alla fine riuscirà a spuntarla e il suo nome comparirà nella lista degli autori.
Quando, nel febbraio del 2015, Heydens evocava una strategia “meno costosa”, parlava “della possibilità di aggiungere i nomi di Helmut Greim, Larry Kier e David Kirkland alla pubblicazione”. E aggiungeva: “Ma potremmo mantenere più bassi i costi se scrivessimo noi il testo e loro dovessero limitarsi a correggerlo e a firmarlo”.

Professore emerito della Technische universität di Monaco di Baviera, in Germania, Greim, 82 anni, nega di essere stato un prestanome della Monsanto. Se è stato retribuito, assicura a Le Monde, è solo per un lavoro realmente svolto e per una cifra ragionevole. “Non mi sarei potuto comprare una Mercedes con quel denaro”, scherza. Per la sua partecipazione al gruppo Intertek, Greim afferma di essere stato retribuito “un po’ più” dei tremila euro che ha ricevuto dalla Monsanto per un altro articolo di sintesi pubblicato all’inizio del 2015 sulla rivista Critical Reviews in Toxicology. In un appunto interno un tossicologo della Monsanto afferma però di essere stato il “ghostwriter della sintesi del 2015 di Greim”.

Un altro dei tre esperti citati, il britannico Kirkland, 68 anni, è consulente privato e specialista in genotossicità. “Non ho mai fatto ghostwriting”, ha detto a Le Monde.
“Non ho mai messo e non metterò mai il mio nome su un articolo scritto da qualcuno che non conosco o conosco, senza avere avuto l’opportunità di verificare tutti i dati”.
Per Kirkland la frase con cui Heydens suggerisce di limitarsi a firmare un articolo non scritto da lui è una “battuta da bar”.

Ma come Greim, Kirkland è un nome noto nella Monsanto. Nel 2012 l’azienda statunitense lo aveva chiamato a contribuire a un importante studio sulla letteratura scientifica che riguarda le proprietà genotossiche del glifosfato. “La mia tariffa giornaliera è issata sulla base di otto ore, cioè 1.400 sterline (1.770 euro) al giorno, per un massimo di dieci giorni (cioè 14.000 sterline)”, scriveva nel luglio del 2012 in un’email. Per il suo interlocutore, David Saltmiras, la tariffa era un po’ alta. In effetti in quell’occasione il tossicologo della Monsanto aveva raddoppiato il suo onorario, ma Saltmiras aveva ritenuto che la reputazione di Kirkland, nome noto e “molto credibile”, “valesse il costo supplementare”. L’articolo è stato pubblicato nel 2013 sulla rivista Critical Reviews in Toxicology.
Kirkland ha ormai un contratto annuale con la Monsanto. In particolare ha firmato un master contract che, come ha spiegato a Le Monde, permette all’azienda di ricorrere alle sue conoscenze senza una retribuzione oraria, come farebbe un avvocato. Questo accordo annuale prevede però un tetto massimo, “per esempio di diecimila dollari all’anno”, oltre il quale devono essere firmati dei contratti distinti, come quello per la sua partecipazione al gruppo Intertek.
Kirkland non ha voluto rivelare quanto vale il contratto con la Monsanto.

Quanti scienziati sono legati in questo modo alla Monsanto con un contratto specifico o con un master contract? L’azienda statunitense non ha voluto rispondere, ma sembra puntare su determinati nomi, e alcuni di questi tornano spesso nelle pubblicazioni che sponsorizza. Per esempio Gary Williams, professore di patologia al New York medical college, negli Stati Uniti, che appare come coautore in tre dei cinque articoli del gruppo Intertek, e in due di queste ricerche è anche citato come primo autore.
Come Greim e Kirkland, Williams ha già collaborato con la Monsanto. In quella famosa email del febbraio 2015, in cui Heydens affermava che gli scienziati avrebbero dovuto “limitarsi a correggerlo e a firmarlo”, si evocava un precedente: “Ricordatevi che è così che abbiamo gestito nel 2000 l’articolo di Gary Williams, Robert Kroes e Ian Munro”. Interpellato da Le Monde, Williams assicura di aver scritto la parte dell’articolo che lo riguardava, ma dice di non poter parlare a nome degli altri due autori. Kroes e Munro sono morti. La Monsanto nega qualunque attività di ghostwriting e parla di alcune parole di un’unica email “prese fuori del loro contesto”.

L’azienda ha però tratto un notevole beneficio da quell’articolo. La lunga sintesi degli studi disponibili è stata citata più di trecento volte nella letteratura scientifica, diventando un punto di riferimento nella materia, e concludeva affermando che il glifosfato non è nocivo.
In quarant’anni la versione ufficiale non è mai cambiata: il glifosfato non è cancerogeno.
Arrivano a questa conclusione gli studi delle più grandi agenzie di regolamentazione incaricate di valutare la pericolosità di un prodotto prima della sua commercializzazione: l’agenzia di protezione dell’ambiente (Epa), negli Stati Uniti, e in Europa l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) e l’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa). È stato necessario aspettare il 2015 per vedere un’altra organizzazione, l’Iarc, arrivare alla conclusione opposta. Come si spiega quest’incredibile differenza di valutazione? Gli osservatori indicano soprattutto un motivo: le agenzie si sono basate sui dati forniti dalla Monsanto, mentre l’Iarc non ha avuto accesso a quei dati. In altre parole, la decisione favorevole al glifosfato è per lo più basata sulle conclusioni dell’azienda statunitense.

I dati delle altre agenzie
Un tossicologo ha denunciato questa situazione: Christopher Portier, ex direttore di diversi istituti pubblici di ricerca statunitensi e associato nel 2015 alla valutazione dell’Iarc. Grazie ad alcuni eurodeputati ambientalisti e a una ong che ne ha chiesto la copia alle autorità europee, Portier è stato l’unico scienziato indipendente ad aver potuto analizzare i dati sul glifosfato usati dalle altre agenzie. In questo modo si è reso conto che quei dati avevano dei problemi passati inosservati. Il 28 maggio 2017 Portier ha scritto al presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker. Per lui non ci sono dubbi: le valutazioni delle agenzie europee, condotte per lo più sulla base di elementi trasmessi dalla Monsanto, sono “scientificamente sbagliate”. Secondo Portier, questi rapporti non avrebbero preso in considerazione otto casi in cui è aumentata l’incidenza di alcuni tumori associati al glifosfato.
Anche se le agenzie hanno categoricamente smentito questi dati, la questione è ormai al centro di accese polemiche.

A chi credere? La lettura dei Monsanto papers fa emergere elementi inquietanti e illustra il modo in cui le agenzie di regolamentazione tengono conto degli studi segreti – e talvolta sospetti – dell’industria.
Ma, soprattutto, i Monsanto papers spingono a interrogarsi sull’integrità e l’indipendenza degli studi ufficiali sul glifosfato. A Bruxelles alcuni europarlamentari hanno preso la questione molto sul serio.
Lo scorso maggio l’eurodeputato ceco Pavel Poc ha organizzato una riunione sulla questione, con il patrocinio del parlamento europeo. Quel giorno sul palco Peter Clausing, un tossicologo tedesco legato all’ong Pesticide action network, ha lanciato una bomba: secondo lui uno studio realizzato dalle aziende del settore che mostrava un aumento dell’incidenza dei linfomi maligni nei topi più esposti al glifosfato è stato indebitamente tenuto nascosto dall’Efsa. Affermando che lo studio non era affidabile, l’agenzia non ha tenuto conto dei suoi risultati, che tra l’altro potevano mettere in guardia sui pericoli del glifosfato.
Nel suo rapporto di valutazione del novembre del 2015, l’Efsa giustificava così la sua scelta: “Nella seconda teleconferenza di esperti (Tc 117), lo studio è stato considerato non accettabile a causa di infezioni virali che avrebbero potuto influenzare la sopravvivenza degli animali e l’incidenza dei tumori, in particolare dei linfomi”. Alcuni virus detti “oncogeni” possono provocare dei tumori tra gli animali da laboratorio. I topi usati per questo studio, chiamato Kumar 2001, avrebbero contratto un virus di questo tipo (senza legame con il glifosfato), disturbando i risultati. “Il problema è che nessun documento afferma che un’infezione del genere aveva effettivamente colpito gli animali”, assicura Clausing. “I rapporti preliminari di valutazione del glifosfato sostengono che questo tipo d’infezione è possibile, ma non che si era verificata. Quello che inizialmente è descritto come possibile, alla fine della teleconferenza 117 diventa un fatto confermato”.

Ma cos’è successo nel corso della teleconferenza 117? Il 29 settembre 2015, a poche settimane dalla pubblicazione della valutazione dell’Efsa, questo grande appuntamento telefonico ha riunito gli esperti di diverse agenzie. L’obiettivo era in un certo senso arrivare a una posizione comune.
Tra i partecipanti c’era un rappresentante della statunitense Epa, Jess Rowland, che aveva diretto la nuova valutazione del glifosfato negli Stati Uniti. Nel corso della discussione, assicura Clausing, Rowland ha parlato di un’infezione virale che avrebbe invalidato lo studio Kumar 2001. Interpellata da Le Monde, l’Efsa conferma, ma assicura che “l’informazione presentata dall’Epa nel corso della teleconferenza è stata verificata in modo indipendente” dai suoi esperti.
Subito dopo l’intervento di Clausing, il Corporate europe observatory, un’ong di Bruxelles, ha presentato una richiesta di accesso ai documenti interni dell’Efsa. La risposta è arrivata il 21 giugno: non esiste alcuna traccia negli archivi dell’agenzia di una verifica delle affermazioni di Rowland. Ma c’è un fatto ancora più imbarazzante: l’Echa scrive in un suo rapporto sul glifosfato che lo studio Kumar 2001 non segnala “alcun sospetto di infezione virale” dei topi e che “non è possibile sapere il fondamento reale della decisione dell’Epa”. In una lettera molto dura indirizzata il 22 maggio all’Efsa, Clausing fa un’altra constatazione ancora più sconcertante. “La prima ipotesi di un’infezione virale collegata allo studio Kumar 2001 proviene da un articolo del 2015 sponsorizzato dalla Monsanto e firmato da Greim e dai suoi collaboratori”.

Sulla loro posizione
Resta da chiarire se gli interventi di un esperto di un’agenzia federale statunitense abbiano potuto influenzare la valutazione europea. I Monsanto papers mostrano in ogni caso che l’azienda è stata informata in tempo reale, il giorno dopo la teleconferenza 117. “Ho parlato del glifosato con l’Epa”, scrive un dirigente della multinazionale in un sms alle 14.38. “Nel corso della teleconferenza hanno l’impressione di aver portato l’Efsa sulla loro posizione”.
Ma non finisce qui. Rowland non è uno sconosciuto nella sede della Monsanto. Il suo nome, infatti, appare regolarmente nei Monsanto papers, in particolare nell’aprile del 2015, molto prima della famosa conferenza telefonica. Proprio quando il glifosato viene classificato come “probabilmente cancerogeno” dall’Iarc e all’Epa è in corso una nuova valutazione, un’altra organizzazione federale statunitense, l’Agenzia delle sostanze tossiche e della registrazione delle malattie (Atsdr), annuncia a sua volta di aver avviato una valutazione.

Il 28 aprile 2015 due dirigenti della Monsanto si scrivono per email. Il primo racconta di aver ricevuto una telefonata inaspettata di Rowland a proposito dell’iniziativa dell’Atsdr. Il primo dirigente riferisce le parole di Rowland: “Se riesco a disinnescare quest’iniziativa, merito una medaglia”.
“Non ci conterei troppo”, gli risponde il collega.
“Dubito che Rowland possa riuscirci, ma è importante sapere che cercano di coordinarsi in seguito alla nostra insistenza e che come noi sperano che l’Atsdr arrivi alle stesse conclusioni dell’Epa”. Tra l’altro lo scambio di email mostra che i due dipendenti sono già al corrente delle conclusioni del gruppo di esperti presieduto da Rowland, anche se il loro lavoro sarà pubblicato solo cinque mesi dopo.

Gli sforzi promessi da Rowland hanno dato dei risultati? La valutazione del glifosfato da parte dell’Atsdr è stata “disinnescata”? La stampa statunitense l’ha data per morta. Tuttavia l’Atsdr, interpellata da Le Monde, assicura che la sua valutazione è in corso, ma non è ancora terminata: “Prevediamo di finire una prima bozza sottoposta ai commenti del pubblico entro la fine del 2017”. I Monsanto papers dimostrano che Rowland è considerato dall’azienda una pedina importante nell’Epa. “Jess andrà via dall’Epa tra cinque o sei mesi”, scrive un dipendente in una nota interna del 3 settembre 2015. “Ma potrebbe ancora tornarci utile nella difesa del glifosato”.
In effetti Rowland è andato in pensione all’inizio del 2016, ma è una pensione tutt’altro che oziosa. Infatti nell’azione legale contro la Monsanto in corso negli Stati Uniti gli avvocati delle parti lese hanno dovuto impegnarsi a fondo per ottenere la conferma che Rowland è ormai il consulente dell’industria chimica. Per ora non sono riusciti a conoscere i nomi dei suoi datori di lavoro, le condizioni della sua assunzione, la natura della sua mansione né l’ammontare dello stipendio. Alla fine di maggio l’ispettore generale ha avviato un’inchiesta interna per chiarire il caso. Attraverso il suo avvocato abbiamo provato a contattare Rowland, ma lo scienziato non ha voluto rispondere alle nostre domande.

Quest’intreccio tra l’Epa e la Monsanto va molto indietro nel tempo, all’inizio degli anni ottanta. La statunitense Carey Gillam, ex giornalista dell’agenzia Reuters e oggi direttrice della ricerca per l’associazione Us right to know, è stata la prima a controllare la corrispondenza dell’epoca tra l’Epa e la Monsanto. Gillam ne ha tratto una cronologia molto significativa, che descrive in un libro intitolato Whitewash (riciclaggio), uscito il 10 ottobre negli Stati Uniti.
I primi sospetti nei confronti del glifosfato risalgono al 1983. In quell’anno la Monsanto aveva sottoposto all’Epa i dati di uno studio di tossicità. La ricerca era stata condotta per due anni su più di quattrocento topi. Il tossicologo dell’Epa che l’esaminò concludeva che il glifosfato era “oncogeno”: due topi esposti alla sostanza avevano sviluppato degli adenomi tubolari ai reni, una rarissima forma di tumore. La Monsanto contestò energicamente queste conclusioni, affermando che si trattava di “falsi positivi”. Ma i tossicologi dell’Epa furono categorici: “Le tesi della Monsanto sono inaccettabili”, si legge in un documento interno del febbraio del 1985. “Il glifosfato è sospetto”. E classificarono l’erbicida “oncogeno di categoria C”, cioè “probabilmente cancerogeno per l’essere umano”.

Allora la Monsanto decise di fornire dei dati supplementari all’Epa, facendo riesaminare i vetrini dov’erano conservati i campioni di reni dei 400 topi. L’operazione fu affidata a un esperto scelto e retribuito dall’azienda. “Il dottor Marvin Kuschner analizzerà i campioni di reni e presenterà la sua valutazione all’Epa per convincere l’agenzia che i tumori osservati non hanno alcun legame con il glifosfato”, scriveva un responsabile dell’azienda in una comunicazione interna. A quanto pare i risultati di questa analisi erano stati decisi in anticipo.
Pochi giorni dopo il dottor Kuschner ricevette i 422 campioni di reni. E nell’ottobre del 1985 affermò nel suo rapporto di aver scoperto un tumore fino a quel momento passato inosservato, ma nel rene di uno dei topi non esposto al glifosfato. Con queste conclusioni la Monsanto sostenne davanti all’Epa la tesi di una “malattia cronica spontanea dei reni” che si sarebbe diffusa tra i topi di laboratorio. In altre parole i tumori non avevano niente a che vedere con il glifosfato.
Proprio come avrebbe affermato per lo studio Kumar 2001 vent’anni dopo.

Segreto commerciale
Ma se questo unico tumore era presente, perché non fu osservato prima? I campioni sono coperti dal segreto commerciale e nessun esperto indipendente ha potuto riesaminarli. Nel 2017 gli avvocati delle parti lese hanno chiesto un riesame. Nel frattempo hanno rilevato che l’Epa ha fatto marcia indietro su tutto, dimostrando una grande accondiscendenza nei confronti del glifosfato.
I tossicologi dell’agenzia non sono sospettabili, hanno sempre dichiarato in modo unanime di trovare il prodotto “sospetto”. In realtà fu un gruppo costituito da funzionari dell’Epa e di altre agenzie federali statunitensi a retrocedere il glifosfato nel gruppo D. Nel febbraio del 1986 lo definì “inclassificabile per quanto riguarda la sua cancerogenicità per l’essere umano”. Nel 1989 l’Epa smise addirittura di chiedere nuovi dati alla Monsanto. Nel 1991 il glifosfato fu ulteriormente retrocesso nel gruppo E: “Prove di non cancerogenicità”. In altre parole non era più un pericolo.

Ma chi sono questi funzionari dell’Epa che cominciarono il declassamento nel 1986? Il loro percorso professionale rivela dei punti in comune e un innegabile talento nell’usare i contatti con il settore commerciale, in particolare alla Monsanto.
Così tre anni dopo il cambiamento di posizione dell’agenzia, il capo del gruppo di lavoro, John Moore, assunse la presidenza di un “istituto per la valutazione dei rischi per la salute” finanziato dall’industria petrolifera, dalle banche e dalla grande distribuzione.
Il suo successore, Linda Fischer, diventò a sua volta vicepresidente della Monsanto dopo aver lasciato l’Epa nel 1993.
Il suo vice, James Lamb, lasciò l’agenzia nel 1988 per entrare in uno studio legale che aveva la Monsanto tra i suoi clienti. Anche altri funzionari lasciarono l’Epa per questo studio. Il direttore dell’ufficio dei programmi sui pesticidi, Steven Schatzow, fu assunto da uno studio legale per rappresentare alcuni produttori di pesticidi. Infine David Gaylor, che faceva parte del gruppo di studio in qualità di rappresentante del Centro nazionale per la ricerca tossicologica, lasciò il suo incarico per diventare consulente privato e anche lui ebbe come cliente la Monsanto.
Ma perché allora la Monsanto volle realizzare questo studio e sottoporlo all’Epa nel 1983, quando il glifosfato era autorizzato sul mercato statunitense da quasi dieci anni?

Una lettera dell’azienda del 1985 lo spiega: lo studio faceva parte di un “programma di sostituzione degli studi di tossicologia dell’Ibt”. Ibt? Questa sigla evoca ricordi terribili a chi la conosce. La storia è nota: in passato le più grandi aziende statunitensi affidavano gli studi di tossicologia dei loro prodotti all’Industrial bio-test o Ibt. Nel 1976 alcuni ispettori sanitari federali avevano scoperto che il successo dell’Ibt era fondato su una frode mortale. Solo indossando delle maschere, gli ispettori avevano potuto esplorare l’hangar soprannominato la “palude”. Qui trovarono migliaia di cavie da laboratorio in una puzza e un’afa insostenibili, condizioni incompatibili con gli studi di tossicità. Nei documenti degli ispettori tornava spesso l’abbreviazione Tbd, too badly decomposed, troppo decomposto, per indicare che non si potevano ottenere dati significativi. I test dell’Ibt arrivavano raramente a conclusioni negative e spesso erano inventati.

Centinaia di prodotti chimici, tra cui almeno duecento pesticidi come l’Aroclor, un prodotto molto tossico a base di Pcb messo a punto dalla Monsanto, erano stati riconosciuti come conformi alla legge nel Nordamerica grazie ai test “effettuati” dall’Ibt.
Anche il Roundup? Su questo punto la Monsanto si limita a dire che “nessun dato prodotto dall’Ibt è stato usato per sostenere l’approvazione del glifosfato”.
Il pesticida più usato al mondo provoca il cancro? L’Iarc ha visto nel 2015 quello che l’Epa avrebbe dovuto vedere quarant’anni fa? Alcune note interne della Monsanto suggeriscono che i suoi stessi tossicologi temevano da tempo una valutazione indipendente del loro prodotto di maggior successo.
Nel settembre del 2014 una scienziata della Monsanto scriveva a un collega: “È successo quello che temiamo da tempo. Il glifosfato dovrà essere valutato dall’Iarc nel marzo del 2015”. Il 25 ottobre i paesi dell’Unione europea dovranno capire di chi fidarsi quando si riuniranno per decidere se prolungare di altri dieci anni il permesso di usare il glifosfato sul loro territorio.

Fonte: Internazionale

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