Nel mondo del vino. Contro la speculazione la via della qualità

Da un lato bottiglie da decine o centinaia di euro, dall’altro vino sfuso a poco prezzo. I piccoli produttori faticano a far tornare i conti. Con le cantine ancora piene dagli anni passati. Alla quantità meglio scegliere la qualità.

Gaja, Antinori, Biondi Santi. Nomi celebri del vino italiano. Una bottiglia può toccare prezzi di centinaia di euro. Dall’altra parte, fermandosi in un autogrill, tra una noce pepata e un pacco di pasta multicolore, si trovano in offerta un Inzolia, un Nero D’Avola o un Chianti a meno di 1 euro. Al supermercato, scorrendo le etichette, si vedono prezzi dai 2 ai 20 euro.
Come si spiega una tale gamma di possibilità? «Nella definizione del prezzo del vino entrano in gioco fattori che vanno al di là della qualità e dei costi di produzione», spiega Tiziana Sarnari, responsabile del settore vino dell’Ismea (Istituto studi sul mercato agricolo).
Quando si viaggia a due o tre cifre (20, 50, 100 euro) vincono elementi intangibili come il marchio, la percezione, l’immagine associata a un nome o a un vitigno. Ma quando si scende sotto una soglia minima (a seconda dei vini 2 come 5 euro), siamo nel campo della speculazione. E il guadagno dei produttori spesso non riesce a coprire i costi.

Troppo vino in cantina
«C’è una sovrapproduzione importante a livello mondiale, di fronte a consumi in calo in tutti i principali Paesi produttori di vino: Italia, Francia e Spagna», commenta Giancarlo Gariglio, curatore della guida Slow Wine di Slow Food. «I mercati emergenti – spiega Gariglio – stanno crescendo come acquirenti di vino e le esportazioni italiane sono in aumento (+7,5% dal 2009 al 2010, ndr). Ma questo non basta ad assorbire tutta la produzione». «Il problema – continua Tiziana Sarnari – restano i consumi interni, che in trent’anni sono crollati. Oggi in Italia beviamo in media poco più di 40 litri di vino all’anno a testa, rispetto ai 90 degli anni Ottanta. E l’eccesso di produzione resta in cantina, rischiando di essere venduto sottoprezzo».

All’inizio degli anni Novanta le giacenze oscillavano intorno a 27 milioni di ettolitri. Nel 2010 erano 41,4 milioni di ettolitri (in leggero calo dai 44 milioni di ettolitri del 2009, dati Ismea). Poco meno dell’intera produzione italiana del 2010, che ha segnato quota 45 milioni di ettolitri (45.170.000 ettolitri secondo le stime Ismea, -0,6% rispetto al 2009), che si è aggiunta alle rimanenze. Una situazione ideale per la speculazione. Perché intermediari e acquirenti all’ingrosso possono approfittare dell’esigenza dei produttori di smaltire le eccedenze per imporre prezzi stracciati. In questo modo però si riducono le quotazioni all’ingrosso di tutto il vino in circolazione, anche di quello della nuova vendemmia.

Ad agosto dell’anno scorso un articolo di Carlo Petrini su Repubblica aveva scatenato una polemica e il fondatore di Slow Food era stato tacciato di difendere il vino costoso. In realtà quella affermata da Petrini era un’evidente verità: se si produce in eccesso i prezzi calano. “Il fatto che la vendemmia sia ricca non mi conforta più di tanto se questa abbondanza non fa che aumentare il processo di svendita del vino sfuso che è già in corso da più di un anno”, scriveva Petrini. Purtroppo è quello che sta accadendo.
L’indice dei prezzi allo sfuso in Italia nel 2010 è rimasto stabile rispetto al 2009, cioè molto basso, in netto calo rispetto a 5 anni prima.

Difficile coprire i costi
A settembre dell’anno scorso 19 cantine sociali dell’Astigiano e dell’Alessandrino hanno lanciato un Sos per il “vigneto che non rende più” e organizzato una grande manifestazione di protesta ad Asti il 2 settembre scorso. “La Barbera e il Monferrato Dolcetto rischiano di scomparire dalle colline del Piemonte. Il vigneto non rende più e molti viticoltori abbandonano. 12 mila famiglie non hanno più alcuna certezza economica per il loro futuro”, si leggeva nell’appello diffuso dall’associazione Vignaioli piemontesi. Il problema è lo stesso: produzione in eccesso e prezzi troppo bassi. «Avevamo 100 mila ettolitri di Barbera invenduti delle precedenti vendemmie, 200 mila in tutto con gli altri vini prodotti nella zona», spiega Giulio Porzio, presidente dell’associazione Vignaioli piemontesi.

Oggi quest’emergenza è in parte rientrata, “grazie” alla distillazione agevolata: fondi per la trasformazione delle rimanenze del vino in alcol a uso industriale. «Ci ha permesso di recuperare circa 40 centesimi al litro e smaltire una parte dell’extra produzione, scesa a oggi 50 mila ettolitri. In Italia è la prima volta che viene concessa la distillazione per una Doc». Un primato che accende molte preoccupazioni. E il problema dei prezzi bassi, dell’uva e del vino sfuso, rimane, seppure in leggero miglioramento. «30 centesimi al chilo per l’uva – continua Giulio Porzio – 50 centesimi per la Barbera sfusa a stento permettono ai produttori di coprire i costi della vendemmia».

La strada dell’alta qualità
«Il mondo dei produttori di vino si divide nettamente in due», spiega Giancarlo Gariglio. «C’è chi alimenta l’industria enologica, vendendo uva o vino sfuso agli imbottigliatori, direttamente o attraverso le cantine sociali. I grandi marchi comprano vino sfuso all’ingrosso, creano i blend e vendono soprattutto alla grande distribuzione. Ci sono poi i piccoli produttori che si occupano di tutte le fasi, dalla coltivazione del vitigno alla vendita delle bottiglie e che puntano su vini di qualità elevata, con un forte legame territoriale. I primi stanno patendo molto più dei secondi, perché sottoposti alle logiche della grande distribuzione e perché sono l’ultimo anello della catena del valore».
«La crisi del 2008 ha aumentato il potere delle catene distributive di imporre i loro prezzi», aggiunge Francesco Pavanello, presidente dell’Unione italiana vini.

«Negli ultimi anni l’interesse per il vino di alta qualità è aumentato», testimonia Stefano Sarfatti, commerciante di vino che ha da pochi mesi aperto una vineria a Milano. Lo dimostrano le vendite nella grande distribuzione (dati Symphony Iri Group): nel 2010 il vino in bottiglia e brick ha segnato un calo dello 0,9% a volume.

In crescita invece l’alta qualità: +2,3% per le bottiglie Docg, Doc e Igt.
«L’unico modo per sopravvivere alla concorrenza, all’invasione dell’industria, ai prezzi stracciati è comunicare al consumatore il valore del vino e rispecchiare il territorio». Costantino Charrére, dell’azienda vinicola Les Crêtes ad Aymavilles, in Valle d’Aosta, ha dato lustro alla regione con il suo vino di montagna. 220 mila bottiglie all’anno, che vende in tutto il mondo: Australia, Giappone, Nord Europa.
«Il mercato estero è garanzia di sopravvivenza per i piccoli produttori, perché in grado di valorizzare la qualità».
Arianna Occhipinti, giovanissima viticoltrice siciliana (28 anni oggi, 21 quando ha avviato la sua azienda agricola a Vittoria, in Sicilia) vende il 70% del suo vino – 65 mila bottiglie di Frappato e Nero d’Avola – negli Stati Uniti, in Giappone e in Australia.

Una classifica di qualità
Leggere l’etichetta di un vino non è certo sufficiente per comprenderne la qualità. Ma la tipologia (con o senza denominazione) stabilisce una graduatoria di tipo qualitativo.
DOCG – Denominazione di origine controllata e garantita
È il riconoscimento più prestigioso. Come per le Doc, il vino è legato a un territorio e deve essere prodotto in quantità limitata (diversa per ogni vitigno), ma in questo caso è sottoposto a norme più severe sulla qualità produttiva.
DOC – Denominazione di origine controllata
È un riconoscimento dei vini di qualità superiore, prodotti in zone limitate di piccole o medie dimensioni. In Italia ce ne sono oltre 300. Il disciplinare di ogni Doc stabilisce zona di produzione, varietà di uve autorizzate, resa per ettaro, resa uva/vino, periodo di invecchiamento, caratteristiche chimico-fisiche e organolettiche.
IGT – Indicazione geografica tipica
Rappresenta un gradino intermedio tra i vini da tavola e le Doc. In etichetta viene indicata la zona di provenienza delle uve, la cui delimitazione è più ampia rispetto alle Doc.

Fonte: valori

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