Metodi naturali e bio dall’uva al bicchiere

La chimica può entrare nel vino, dalla vite alla vinificazione. Il bio tutela la natura e la diversità dei sapori.

«L’estate scorsa una coppia di danesi è venuta a visitare la mia azienda vinicola. Volevano sapere che cosa significasse coltivare uva con metodi biologici. Li ho portati in vigna e, camminando, ho raccolto tra le viti 27 fiori diversi. Ho regalato il bouquet alla signora e le ho detto: questo è un vitigno biologico». Descrive così il succo della viticoltura bio Sandro Barosi, produttore di Barbera e Nebbiolo a Dogliani (Cuneo). Una spiegazione semplificata e figurativa, ma che rende bene l’idea: mostra come nei vitigni coltivati con metodi biologici – cioè senza l’aiuto di sostanze chimiche di sintesi (concimi, diserbanti, anticrittogamici, insetticidi, pesticidi in genere) e senza l’impiego di organismi geneticamente modificati – le erbacce si tolgono a mano e non vengono “sterminate” con del diserbante che, sparso ovunque per risparmiare tempo e fatica, uccide anche le altre forme di vita vegetali attorno alla vite. L’immagine del bouquet mostra come una delle tecniche principali per fertilizzare i vigneti bio sia l’inerbimento: cioè mantenere un manto erboso sotto le viti, che cattura acqua e sostanze nutritive come l’azoto, rilasciate poi nel terreno. E il bouquet significa biodiversità, che i vigneti bio mantengono e che permette di avere fiori e profumi che insaporiranno il vino.

I costi della cura della vite
L’Istat ha da poco pubblicato un rapporto su “L’utilizzo dei prodotti fitosanitari nella coltivazione della vite”, da cui è emerso che, rispetto al 2004-2005 (periodo della precedente rilevazione), nell’annata 2009-2010 il numero dei trattamenti a cui sono stati sottoposti i vigneti in Italia è aumentato del 25,9%, da 2,2 a 2,7 milioni, su una superficie trattata rimasta quasi invariata.
«Chi usa trattamenti chimici in vigna cerca una scorciatoia per risparmiare tempo e fatica, ma è una soluzione apparente. Se, per eliminare un parassita getto diserbante su tutto il vigneto, distruggo la vita e rovino il terreno».
Andrea Kihlgren produce vino con metodi naturali a Sarzana (La Spezia), soprattutto Vermentino, nella sua azienda vinicola Santa Caterina. «Produrre vino con metodi naturali – continua Andrea Kihlgren – comporta certamente più fatica e maggiori costi: innanzitutto per la manodopera, perché tutte le fasi della coltivazione della vite devono essere svolte manualmente. Ma anche per la parte di uva che quasi certamente andrà persa. La condizione necessaria per vinificare in modo naturale è aver lavorato molto bene in vigneto e aver selezionato attentamente l’uva».
Ma quanto costa produrre uva e vino con metodi biologici? «I costi variano da zona a zona – spiega Cristina Micheloni, del comitato scientifico di Aiab (Associazione italiana agricoltura biologica) – a seconda della temperatura (se fa più caldo servono meno trattamenti) e della disposizione del vigneto (in collina i trattamenti manuali richiedono più tempo). Possono aggirarsi attorno a un 10% in più rispetto a un vino tradizionale. Ma per chi produce vino di qualità, nelle zone delle Doc, non c’è molta differenza da un punto di vista economico tra bio e non bio».
In più c’è il costo della certificazione. «Tra marchio e controlli, la certificazione della coltivazione bio ci costa circa 500-600 euro all’anno», racconta Corrado Dottori produttore di vino dell’azienda agricola La Distesa a Cupramontana: tre ettari di vigneto in provincia di Ancona, nelle Marche.

Dall’uva al vino
In Italia a dicembre 2009 (ultimo dato ufficiale) c’erano 43.600 ettari di vigneti coltivati con metodi bio, nel 2006 erano 34 mila. «Una crescita continuata nel 2010 – spiega Cristina Micheloni – grazie a un mercato che chiede sempre più vino di qualità e biologico. Lo dimostrano anche i dati di altri Paesi europei come la Francia, passata dai 19 mila ettari di vigneti bio del 2006 a 40 mila nel 2009, o la Spagna, che ha segnato un balzo da 16 mila a 54 mila ettari».
Per il momento la normativa europea, e italiana, certifica solo la coltivazione dell’uva con metodi bio, non l’intero processo di vinificazione. Quindi sulle bottiglie è corretto leggere “vino prodotto da uva coltivata con metodi biologici”. Per definire un vino “bio” a tutti gli effetti è necessario che non vengano usate sostanze chimiche in alcuna fase di lavorazione (o che vengano rispettati i limiti stabiliti). «Si pensa che il vino sia un prodotto della terra – spiega Giancarlo Gariglio di Slow Food – ma non è così. La normativa italiana ed europea consente di introdurre circa 400 additivi chimici durante la vinificazione. Quindi il vino può essere un prodotto della terra, ma con un importante utilizzo della chimica».
Molti produttori che hanno scelto il biologico seguono metodi naturali anche durante la vinificazione, seppure non esista ancora una normativa che possa certificarlo. Per ovviare al vuoto legislativo in ogni Paese sono nati marchi privati di certificazione del vino biologico, ciascuno con un suo disciplinare, ma che rispettano principi minimi comuni scritti nella “Carta europea del vino biologico” (www.organic-wine-carta.eu e www.orwine.org). In Italia ci sono Aiab (Associazione italiana agricoltura biologica), Ccpb (Certificazione e controllo prodotti biologici) e Amab (Associazione mediterranea agricoltura biologica), marchi privati, appunto, legati ad associazioni di produttori di vino bio, certificati da enti di controllo.

Gusti omologati

I prodotti enologici, non necessariamente chimici, aggiunti durante la vinificazione servono ad “aggiustare” il vino: correggere l’acidità, la gradazione alcolica, ma anche il gusto. Magari aggiungendo sapori di legno e simulando l’invecchiamento in barrique.
«Non esistono più vini cattivi – spiega Andrea Kihlgren – perché vengono tutti aggiustati. Sono costruiti. Ma il consumatore medio non li sa riconoscere. Talvolta non li saprei riconoscere neanch’io. Ma è una qualità falsata, con sapori standardizzati. I vini naturali hanno un’imperfezione vitale».
«Il vino prodotto dalle grandi aziende moderne, attente alla qualità e alla sicurezza è più buono di molti vini bio», replica Francesco Pavanello, presidente dell’Unione italiana vini.
«I trattamenti in fase di vinificazione – continua Pavanello – non arrecano danni alla salute di chi lo beve, né alla qualità del vino, anzi. Permettono di migliorarne la conservabilità e migliorano la parte aromatica».
Ma in questo modo si annulla la caratterizzazione del vino, legata al territorio, che varia da un luogo a un altro, da una stagione all’altra. «È vero – risponde Pavanello – perchè cerchiamo di andare incontro alle richieste e ai gusti del mercato. Se si producono 100 mila ettolitri di vino, non possono certo avere sapori diversi a seconda dell’appezzamento da cui proviene l’uva. Si fa una selezione del vitigno, quindi si crea un blend e lo si riproduce sempre uguale. È quello che chiede la Gdo e il mercato». Che dire, due mondi che più lontani di così non si può.

Fonte: valori

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