Medicine etniche e tradizionali, erbe e rimedi dei popoli indigeni

La presenza di elementi spirituali nella medicina popolare oggi è un fatto meno controverso che nel passato. I limiti delle terapie che portano il rigore scientifico della medicina moderna ai suoi estremi sono noti. Questa linearità non soddisfa la complessità degli esseri umani. Considerare lo stato di salute una condizione meccanica chiarisce i rapporti fisici di causa-effetto, ma oscura le relazioni tra le nostre molteplici dimensioni, impulsi e aspirazioni.

La medicina tradizionale risponde a esigenze che sono proprie di un sistema di valori e di una società data e, pertanto, non ha una valenza universale. Entrambe le medicine sono piagate da insufficienze e da furbizie: esperienza e cultura ne sono la cura. L’affermazione della civiltà delle tecniche, secolare e particolarista, ha privato i guaritori popolari dei riferimenti culturali condivisi con i pazienti e di un vasto campo d’azione. Questa deficienza si bilancia con i limiti degli approcci medici puramente razionali ed economici. Il mistero completa la nostra imperfetta condizione, le dà un significato ed è una riserva di energia cui tendiamo e cui attingiamo quando riconosciamo i nostri limiti.

La salute e la malattia sono complementari, si potenziano e si manifestano inscindibilmente nella nostra esistenza. Sovente il paziente scorge nel medico moderno gli stessi tratti spirituali attribuiti ai guaritori tradizionali, la vocazione a servire la comunità, l’adesione al mistero o a principi che superano la pura esistenza materiale, e la capacità di scrutare le anime al di là delle piccole miserie quotidiane e di manipolare le forze della natura.

Tali doti dei guaritori rispondono a esigenze universali. Le terapie tradizionali dell’Africa, dell’Asia e delle Americhe condividono alcuni tratti ormai dimenticati della medicina tradizionale italiana, da tempo relegata nelle campagne e sui monti. Esse riaffiorano nelle comunità dei migranti e nelle nuove aggregazioni urbane, marginali e insoddisfatte delle risposte immediate e riduttive proposte dalla scienza e dalle affermazioni apodittiche di chi, nel suo intimo, si sente insufficiente di fronte alla dimensione sovrannaturale della natura e dell’esistenza.

Il silfio della Cirenaica
Teofrasto di Ereso, il padre della botanica, narra che nell’anno 618 a.C., facendo seguito a una pioggia densa come pece, nei pressi di Cirene comparve per la prima volta la pianta del silfio (Storia delle piante, III.1.6). La gommoresina estratta da questa specie era una panacea apprezzata dalla scuola ippocratica, che la raccomandava specialmente come emmenagogo e abortivo orale per provocare l’espulsione del feto, oltre che come antidoto in caso di avvelenamento da erbe e da serpenti. L’emporio di Cirene esercitava il monopolio dello sfruttamento e dell’esportazione di questo prodotto, impiegato sia come medicina sia come condimento aromatico e alimento. I tentativi fatti per acclimatarlo altrove fallirono.

PIANTE MEDICINALI NELLA LIBIA ANTICA
Gli abitanti della Libia si concentrano nella fascia costiera caratterizzata da una vegetazione mediterranea e sovrastata dalle colline che risalgono verso un altipiano a steppa arida, che a sua volta si dissolve nel deserto del Sahara con le sue oasi ove fanno tappa i pastori nomadi. Secondo lo storico greco Erodoto (Storie, IV.71) nella regione litoranea intorno alla città di Cirene si trovavano gli Orti delle Esperidi, terreni famosi per la presenza appunto di orti e di campi coltivati che producevano spezie quali lo zafferano, i petali profumati delle rose e delle viole (unguenti), i tartufi, la frutta (pomi, melograni, pere, corbezzoli, bacche di mirto, datteri, olive, more, uva), le mandorle e le noci. In tali orti Eracle sottrasse i tre pomi aurei al gigante Atlante. La fama di questa regione dipendeva però dalla produzione di alcune essenze aromatiche e medicinali che erano esportate negli altri paesi del Mediterraneo.

L’immagine di questa pianta, che era divenuta il simbolo della città di Cirene, fu impressa sulle monete d’argento coniate dalla città.

Nei primi secoli dell’era cristiana, il sovra-pascolamento dell’altopiano stepposo pre-desertico a sud di Cirene, in cui il silfio cresceva spontaneamente, portò all’estinzione di questa specie e alla sua sostituzione con l’assafetida, una pianta assai simile, che prospera tuttora in Afghanistan e in Asia centrale; questo nuovo prodotto, al contrario del silfio, ha un odore sgradevole, pungente ed era reputato meno efficace dal punto di vista medicinale, obbligava all’impiego di dosi doppie.

Il silfio era vicino botanicamente a due specie spontanee anche in Italia (Ferula tingitana e Thapsia garganica), apparteneva alla famiglia delle Apiacee e presentava radici carnose, ramificate, con corteccia nera, profonde anche mezzo metro, da cui sporgeva una tuberosità sub-superficiale; le foglie simili a quelle del sedano erano appetite dalle pecore. Secondo Teofrasto esse guarivano chi se ne cibava. Lo stelo fiorifero annuale poteva raggiungere i tre metri e presentava un’infiorescenza distale a forma di ombrella, più espansa di quelle laterali, rivestita da brattee incise con lobi a disposizione palmare; dall’apice del peduncolo dell’infiorescenza irradiano altri brevi peduncoli, sormontati da una sferula, il fiore; i frutti erano diacheni alati che maturavano a fine primavera ed erano disseminati dal vento. La tuberosità radicale era incisa a fine primavera per estrarre una gommoresina acre, rossa e traslucida, internamente trasparente, solubile in acqua, simile alla mirra e denominata la-serpitium – ossia latte di silfio – o laser; questa sostanza era poi miscelata a farina per aumentarne la consistenza. La gommoresina di Narthex assa-foetida e di ferula (Ferula assa-foetida) invece si condensa in pezzi poco duri, giallo opalini, ricchi di oli essenziali, con intenso odore di aglio, dovuto alla presenza di polisolfuri di alchili non saturi; invecchiando divengono di un colore giallo dorato, più consistenti e il loro sgradevole odore si attenua. Per estrarre questa gommoresina, si incide la sezione superiore della radice al primo appassire delle foglie (metà aprile) e si ricopre con i residui del fogliame; a fine maggio si taglia una striscia superficiale della radice e si raschia il lattice che si addensa sul taglio; questa operazione si ripete altre due volte, dopodiché si lascia riposare la pianta per dieci giorni, prima di incidere nuovamente la sezione superiore della radice.

La raccolta del prodotto si estende per alcuni mesi. L’antico scrittore Claudio Eliano racconta (Varia historia, XII. 37) che nella gelida primavera dell’anno 329 a.C. l’esercito di Alessandro Magno, che stava attraversando la catena montuosa dell’Indu Kush in Afghanistan, fu costretto dalla mancanza di cibo a cibarsi della carne cruda dei propri cavalli e cammelli, la cui digestione fu facilitata dell’”assafetida”, impiegata come come condimento; in seguito il medico arabo Avicenna la raccomandò come afrodisiaco per gli uomini anziani o deboli. La facilità con cui il silfio fu sostituito dall’assafetida può essere spiegata dalla somiglianza tra le proprietà attribuite al silfio da Dioscoride (Materia medica, III. 84) e quelle che le moderne farmacopee riconoscono all’assafetida.

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