Mangia meglio, il mondo te ne sarà grato

MILANO – Bisognerebbe guardare un po’ al di là del nostro
piatto (e del nostro naso). E capire che ogni nostra scelta alimentare
non ha effetto solo sulla nostra salute, ma anche su quella della
nostra bistrattatissima «Madre Terra». Che ci sarà grata se preferiamo,
ad esempio, prodotti di stagione che non macinano migliaia di
chilometri stipati in container prima di arrivare sulla nostra tavola.
È solo un piccolo esempio di dieta ecosostenibile portato dagli esperti
dell’Associazione Nazionale Dietisti che ne hanno parlato a Rimini, durante il loro convegno annuale. I
pregi dell’alimentazione che ha un occhio di riguardo per l’ambiente?
«Alleggerisce» il nostro peso sul mondo e ci avvia sulla strada di
un’alimentazione sana e sufficiente per tutti, poveri e non. Per di più
promette di farci risparmiare qualcosa, e in tempi di crisi di certo
non guasta.

SPRECHI – Tutto nasce anche da un’amara constatazione: sulle
nostre tavole c’è di tutto e di più, spendiamo un sacco di soldi per
generi alimentari e bevande (nel 2007, secondo l’ISTAT, 466 euro al
mese, pari a poco meno di un quinto di tutte le spese familiari), ma
spesso e volentieri buttiamo un sacco di cibo nella spazzatura. «Ogni
giorno i supermercati d’Italia gettano tra i rifiuti 170 tonnellate di
cibi ancora buoni; ogni anno finiscono in discarica sei milioni di
tonnellate di alimenti consumabili – spiega Stefania Vezzosi,
responsabile regionale Andid Toscana –. Ciascuno di noi butta nella
pattumiera 27 chili di cibo commestibile ogni anno: il 5 per cento del
pane, il 18 per cento della carne, il 12 per cento della frutta e della
verdura. Ben 584 euro sprecati. E la tendenza è in crescita perché il
nostro stile di vita sta inesorabilmente cambiando: abbiamo sempre peno
tempo da dedicare alla preparazione dei pasti, non recuperiamo gli
avanzi». Così, mentre oltre sette milioni di italiani vivono sotto la
soglia di povertà relativa, buttiamo al macero cibi buoni perché ne
abbiamo comprati troppi (nel 40 per cento dei casi; nel 21 per cento
perché ci siamo fatti convincere dall’allettante prendi tre paghi due
senza riflettere sulle nostre reali necessità), perché sono scaduti o
sono andati a male (24 per cento dei casi), perché non ci sono piaciuti
(9 per cento) o perché non ci servivano proprio (7 per cento).

PROBLEMA AMBIENTALE – «Non possiamo però limitarci a considerare
tutto questo un semplice spreco alimentare – continua Vezzosi –. Il
cibo gettato via è un problema ambientale, sociale ed economico enorme
in un momento in cui i prezzi delle materie prime aumentano (il riso è
triplicato e il frumento raddoppiato durante il 2008), le riserve
alimentari mondiali si assottigliano e pure il Segretario Generale
delle Nazioni Unite ha espresso forti preoccupazioni sulla sicurezza
alimentare e sull’effetto sui livelli globali di povertà. Con quello
che gettiamo nei Paesi ricchi non solo si azzererebbe il problema della
malnutrizione nei Paesi poveri (in 28 nazioni, soprattutto africane, la
quota di popolazione che soffre la fame supera il 40 per cento), ma
addirittura si “rischierebbe” di portare anche quei Paesi alle soglie
della sovra-alimentazione e obesità».

SOSTENIBILITÀ– Mangiare con più criterio, insomma, farebbe del
bene al nostro portafoglio ma soprattutto al mondo. Anche perché l’uso
quasi indiscriminato che facciamo delle risorse alimentari comporta
effetti collaterali non da poco sull’ambiente: altro punto dolente che,
sottolineano i dietisti, non è mai abbastanza considerato. E infatti la
nostra «vita all’occidentale» è assai poco ecosostenibile, tanto che
Jennifer Wilkins, un’esperta di politiche nutrizionali e sociali della
Cornell University intervenuta al congresso riminese, ha addirittura
fatto pubblica ammenda per le colpe degli Stati Uniti nell’aver diffuso
fast food e cibi-spazzatura nel mondo. Aggiungendo una definizione
chiara e comprensibile di ecosostenibilità alimentare: «Arriva dal
summit di Rio del 1992, e ci indica che l’ecosostenibilità è la
capacità di venire incontro alle necessità del presente senza
compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i
loro bisogni». In altri termini, è la necessità di avere un “piede
lieve” su questo mondo, lasciandolo possibilmente migliore di come
l’abbiamo trovato e di certo non impoverendolo: significa scegliere di
non sprecare le risorse naturali, facendo attenzione a cosa (e quanto)
si mette nel carrello della spesa».

COSTI – «Dobbiamo pensare che ogni alimento ha un prezzo, che è
quello che paghiamo quando lo acquistiamo, e un costo: quest’ultimo
include la perdita di cose che hanno un valore non misurabile
numericamente (come l’impoverimento del suolo) o un valore che non
siamo in grado di riconoscere finché non lo abbiamo definitivamente
perduto – osserva la Wilkins –. L’agricoltura moderna, ad esempio, fa
largo uso di antibiotici che poi ritroviamo nei cibi o nelle acque
potabili; allevatori e agricoltori stanno riducendo la biodiversità
animale e vegetale perché privilegiano solo le specie meglio gestibili,
trasportabili, utilizzabili. Dovremmo invece pensare di più all’impatto
ambientale e sulla salute pubblica del cibo che consumiamo, passando
dal produrre sempre di più senza pensare alle conseguenze (tanto che
oggi nei supermercati del mondo ci sono 47.000 tipi diversi di cibo,
secondo alcune stime) alla produzione “ecologicamente integrata” che
badi alla salute del suolo, degli animali e in ultima analisi
dell’uomo. L’Italia offre buoni esempi: in Toscana Andid ha creato una
guida ai prodotti locali e stagionali e si stanno modificando i menu
delle mense scolastiche a favore del biologico; all’Ospedale di Asti,
in Piemonte, il cibo per i degenti è quasi tutto biologico e non fa più
di 30 chilometri prima di arrivare alle cucine». Angie Tagtow, del
Dipartimento di nutrizione e Salute Pubblica dell’università dell’Iowa,
aggiunge: «I processi attuali di produzione del cibo possono degradare
le nostre risorse naturali: suolo, aria, acqua, fonti di energia non
rinnovabili. E quando queste si degradano, si deteriora anche il cibo
stesso e la società. Se invece la produzione del cibo è “integrata” con
la comunità e l’ambiente, come spesso ancora accade in Italia, aumenta
l’accesso agli alimenti freschi e prodotti localmente che sono più
sicuri e fanno meglio alla salute». Non è una rinuncia al gusto, anzi.
E un po’ di austerità in materia di consumi non guasterebbe di certo:
ce lo stiamo ripetendo da quando è iniziata la crisi, forse ora (magari
per paura che scompaia la possibilità di mangiare bene) inizieremo
davvero a metterla in pratica.

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