Sono ormai varie settimane che tutti i mezzi di informazione si occupano quasi quotidianamente del problema della B.S.E. (encefalopatia spongiforme dei bovini). La cosiddetta malattia della “mucca pazza”, caratterizzata inizialmente da esagerata paurosità o aggressività, e successivamente da problemi di deambulazione, dimagrimento e morte, ha creato molte preoccupazioni e timori nella popolazione. Tale timore è stato amplificato dal blocco totale delle esportazioni di carne bovina decretato dalla comunità internazionale nei confronti della Gran Bretagna. In effetti il blocco è stato determinato non tanto in base a delle certezze ma piuttosto sul sospetto di una possibile trasmissibilità della malattia dal bovino all’uomo. Poiché è ormai assodato che questa malattia ha già compiuto un preoccupante salto di specie passando dagli ovini ai bovini attraverso l’uso di farine di carne di animali infetti, è ovvio che essa sia già da tempo seguita con particolare attenzione dai patologi di tutto il mondo.
Le encefalopatite spongiformi, cosiddette perché le degenerazioni che si verificano nel cervello hanno un aspetto simile a quello di una spugna, sono diventate di dominio pubblico da circa un mese, ma tali malattie sono note agli addetti ai lavori già da molti anni, anche se fino al 1985 non erano noti casi nel bovino. Nel 1985 si sono verificati i primi casi di B.S.E. e nel 1989 i Servizi Sanitari dell’U.E., per impedire la diffusione della malattia, hanno vietato sia la somministrazione ai ruminanti di farine di carne di derivazione bovina od ovina, sia l’esportazione dall’Inghilterra dei bovini nati prima del 1988. Nel 1990, identificati come organi responsabili del contagio il cervello, il timo, la milza, l’intestino e i linfonodi, viene imposto alla Inghilterra il divieto di esportazione di tutte le frattaglie di tale tipo e dei bovini di età superiore ai sei mesi.
Il livello di attenzione si è trasformato in vero e proprio allarme nel momento in cui si è verificata, in Gran Bretagna, la comparsa di 10 casi del morbo di Creutzfeld-Jacob in persone di età compresa fra i 18 ed i 40 anni. Infatti questa encefalopatia, caratterizzata da lesioni e sintomi corrispondenti a quelli della “mucca pazza”, aveva in precedenza colpito esclusivamente persone prossime ai 50 anni, e risulta quindi molto sospetta questa concomitanza con la diffusione della malattia ad una parte rilevante della popolazione bovina inglese. Se è vero, infatti, che il massimo della epidemia si è verificato nel 1986 con circa 10.000 casi e che attualmente i nuovi casi denunciati in Gran Bretagna sono molto diminuiti, è altrettanto vero che, essendo i tempi di “incubazione” molto lunghi, era legittimo pensare che una eventuale trasmissione all’uomo necessitasse di un certo numero di anni prima di evidenziarsi. In base a tale situazione, nel marzo di quest’anno la U.E. ha imposto il “divieto di importazione di bovini, loro prodotti e mangimi del Regno Unito, sia nei paesi U.E. sia nei Paesi Terzi”. L’agente patogeno di tale malattia sembra essere il “prione”, un frammento di proteina privo di capacità vitale autonoma, ma capace di indurre nell’organismo ospite una modificazione della normale produzione proteica, creando un accumulo di sostanze di tipo amiloide che danneggia progressivamente i neuroni determinando un mutamento irreversibile e inesorabile della loro struttura e funzione.
Uno dei veicoli principali di contagio sembra essere la farina di carne, alimento che negli ultimi anni si è imposto come fonte proteica di basso costo per far fronte alle enormi richieste di cui necessita l’allevamento di animali a caratteristiche produttive sempre più esasperate. Le farine di carne sarebbero quindi responsabili prima del passaggio della malattia dagli ovini ai bovini, e successivamente della diffusione fra gli stessi bovini. Bisogna tener presente che, pur senza voler creare allarmismi ulteriori, queste farine rappresentano un incredibile e pericoloso circolo vizioso: il loro uso è favorito da una legislazione che vieta l’utilizzo di carcasse solo nel caso di animali morti per malattia infettiva. La legislazione non si preoccupa però minimamente né dei rischi derivanti dalle possibili alte concentrazioni di residui farmacologici che potrebbero contenere né dalla possibilità che i trattamenti termici cui vengono sottoposte siano insufficienti ad eliminare agenti e sostanze potenzialmente nocivi (vedi proprio il proprio il prione che riesce a resistere alle temperature normalmente usate nei processi di preparazione delle farine di carne).
La presenza di residui farmacologici deve essere chiamata in causa anche riguardo alla crescente reattività alla carne e ai suoi derivati che manifestano i nostri animali da compagnia che la utilizzano nell’alimentazione. Sempre più frequenti sono infatti i casi di manifestazioni quali prurito, eczemi, forfora, congiuntiviti, lacrimazione costante, otiti e disturbi gastroenterici che colpiscono il cane e il gatto, e un lavoro di ricerca personale durato oltre 20 anni ha messo chiaramente in evidenza che tali fenomeni patologici sono molto spesso legati a residui farmacologici. A supporto di tale affermazione è sufficiente osservare che le reazioni si scatenano esclusivamente con la somministrazione di carni di animali allevati con cicli di produzione industriale, mentre risultano assenti alimentando i cani e i gatti con carne di derivazione biologica. La ricerca in oggetto ha evidenziato, inoltre, che il pesce di mare rappresenta l’ideale fonte proteica sostitutiva della carne.
L’utilizzo di tale alimento, sicuramente privo di residui di tale origine e ricco sia di proteine nobili e altamente digeribili che di acidi grassi polinsaturi, si rivela come mezzo più di ogni altro valido per la risoluzione di tali patologie. Dal punto di vista omeopatico è interessante notare come tutte le manifestazioni patologiche citate siano forme di eliminazione che interessano esclusivamente gli organi emuntori, e ciò a conferma di come i cani e i gatti abbiano un sistema di drenaggio delle tossine ancora molto efficiente. Infatti tutti gli animali che presentano fenomeni pur assai fastidiosi come dermatiti, prurito, diarrea e vomito saltuario, convivono generalmente con questi in modo soddisfacente. Diventa invece preoccupante il fatto che tutte le persone che si cibano con gli stessi alimenti non sembrano presentare fenomeni analoghi e la sensazione è quella che gli emuntori dell’essere umano siano pressoché bloccati, favorendo l’accumulo di tossine negli organi vitali.
Questa potrebbe essere una delle cause dell’aumento inesorabile del cancro e delle malattie autoimmuni. Dal punto di vista terapeutico è da evidenziare come, in perfetta sintonia con i principi omeopatici, sia sufficiente, per arrivare alla guarigione, eliminare degli alimenti a rischio senza l’ausilio di alcuna terapia. Si può quindi ben intuire come l’eventuale uso, in tali situazioni, non solo di farmaci antinfiammatori ma anche di rimedi omeopatici non ben scelti possa provocare una pericolosa inibizione dei meccanismi reattivi. Per concludere si può affermare che il riscontro ormai quotidiano di patologie legate alla alimentazione dovrebbe condurre ad una riflessione sui rischi per la salute che possono derivare da sistemi di produzione degli alimenti sempre più esasperati e al ruolo negativo che la diffusione progressiva delle farine di carne nell’alimentazione degli animali da reddito può giocare.
Fonte: Il Medico Omeopata
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