Amianto, Pbc, Cvm sono solo alcuni esempi concreti del valore che dobbiamo attribuire ai primi segnali di allarme. L’importanza del principio di precauzione per minimizzare il rischio di fenomeni irreversibili contro l’ambiente.
La resistenza al cambiamento è attitudine tipica della nostra specie, soprattutto della sua parte che detiene il controllo delle leve del potere economico e politico, che vuole conservare lo stato di cose presenti in nome dei propri “vested interests”.
Tale resistenza si nutre della ben studiata propensione degli umani ad occuparsi solo di ciò che è vicino nello spazio e nel tempo, propensione che confligge con l’ampiezza e la trasversalità intrinseche alla questione ambientale. Ambiente è sinonimo di complessità: la transizione dai paradigmi della semplificazione meccanicistica a quelli olistico-sistemici è difficile anche per il regime di incertezza che ancor oggi caratterizza la conoscenza dei processi che nell’ambiente si instaurano ed evolvono, obbligando ad assumere a necessario corollario la nozione di rischio associata a quella di incertezza e di complessità/crisi di letture di nessi causali lineari come governanti le relazioni tra organismi umani, biologici e sociali.
Come definire “pericolo”, “rischio”, “incertezza”, “ignoranza”?
‘Pericolo’ è valutazione di un fenomeno in qualche modo noto: quando al pericolo possiamo associare la nozione di probabilità del verificarsi di un effetto, parliamo di ‘rischio,’ mentre la nozione di ‘ incertezza’è adatta a ciò che non è noto e men che meno scientificamente provato e ignoranza è condizione necessaria e sufficiente per l’assenza di qualunque percezione di rischio.
Consci dell’esigenza di pervenire ad una semplificazione consapevole della complessità al fine di poterla governare, si individuano nelle cosiddette “no regret actions” le uniche alternative possibili nel caso si prevedano effetti potenzialmente irreversibili di perturbazioni di origine antropica (vuoi perché frutto di “spontanee” forze di mercato orientate alla mera massimizzazione del profitto, vuoi perché programmate da un potere pubblico ignorante delle criticità ambientali, quando non ad esse colpevolmente indifferente), per contrastarne l’irreversibilità attraverso l’attivazione di fattori che amplifichino e non mortifichino, la capacità omeostatica di reazione dei sistemi naturali alle perturbazioni stesse.
I sistemi a maggior rischio d’impatto rilevante da dissennato sfruttamento antropico (cioè ad opera dell’uomo) di risorse comunque esauribili (“finite” prima sul versante qualitativo che non su quello della disponibilità quantitativa, come le idriche e le energetiche) sono quelli meno attrezzati sul piano della conoscenza circa lo stato del proprio ambiente.
Da parte dei grandi interessi industriali e finanziari dominanti si preferisce optare per un’aprioristica negazione di qualsivoglia problema, devolvendo risorse imponenti non alla conoscenza, ma a supporto di scelte scientemente “tranquillizzatrici”, che assumono il carattere di martellanti campagne di disinformazione; in Italia la situazione è aggravata dalla ricorrente tentazione di funzionari tecnici ed amministratori pubblici, in teoria non portatori di interessi diretti, ad oscillare tra le opzioni “tranquillizzatore a tutti i costi” e “nunzio di catastrofi”.
Negli Stati Uniti, le principali reti televisive iniziarono già negli anni ‘80 a trasmettere “pillole quotidiane” sulla convivenza necessitata con il rischio, non esistendo il rischio zero (nozione evidente grazie alla termodinamica): la comunicazione orientata alla prevenzione era praticamente annullata e l’illusione tecnologica dominava, finchè si verificò il terribile incidente alla centrale nucleare di Three Miles Island.
L’Unione Europea ha per prima indicato una forma di “governance” della complessità, introducendo la Valutazione Ambientale Strategica di piani e progetti come pre condizione per ottenerne il finanziamento nell’ambito del Quadro Comunitario di Sostegno (i Fondi Strutturali): l’analisi “ex-ante” così garantita dovrebbe essere accompagnata da un monitoraggio d’efficacia delle azioni “in progress” (che ne consenta una correzione in corso d’opera) in base a set condivisi di indicatori, in vista della valutazione finale ex-post.
La nascita del Principio di Precauzione
Lo strumento decisivo per minimizzare strategicamente il rischio del verificarsi di fenomeni irreversibili di degrado dell’ambiente in cui viviamo, in logica di sostenibilità dello sviluppo intesa come solidarietà diacronica ed equità intra- ed inter-generazionale, è, nel comune sentire degli attori sociali, istituzionali ed economici più consapevoli a scala internazionale,
Il principio di Precauzione, introdotto nel 1984 nella legislazione tedesca a seguito dell’acidificazione della Foresta Nera.
L’adesione a tale Principio è messa quotidianamente in discussione dai paladini (“disinteressati”?) della crescita a tutti i costi, quasi non risultasse sufficiente il costo sin qui pagato dall’Umanità in termini di morti da inquinamento, danni da eventi estremi correlabili al cambiamento climatico globale in atto, sofferenze per le aggressioni ai diritti delle persone, dalla fame all’assenza di assetti democratici in gran parte delle aree detentrici di risorse strategiche per il mercato.
La innovatività delle scelte necessarie a garantire un qualche futuro alle generazioni che verranno, contrastando il cambiamento climatico globale in atto, si legge bene esaminando le risorse che il potere politico e finanziario internazionale sta dedicando ad una sin qui mai vista operazione di disinformazione sistematica in materia.
Fallita la missione affidata al Lomborg de “L’ambientalista scettico”, rintuzzati i tentativi di dare patine di scientificità agli argomenti cui l’Amministrazione Bush appena insediata ricorreva per giustificare la ripulsa del Protocollo di Kyoto, oggi si arriva a scomodare Michael Crichton , che redige diligentemente il suo “State of fear”, per insinuare nella coscienza collettiva il dubbio che il cambiamento climatico altro non sia che una colossale mistificazione opera di una maligna EcoSpectre. L’operazione conservativa è così massiccia da generare forte preoccupazione, come reso evidente dai ripetuti interventi pubblici di autorevolissimi accademici di un Regno Unito impegnato alla costruzione di nuove prospettive di sviluppo che minimizzino la vulnerabilità attuale per dipendenza da risorse sempre più scarse.
Torna conto, allora, tutelare il Principio di Precauzione da un attacco frontale che fa apparire chi lo sferra come in preda alla più palese “Sindrome da Titanic”, richiamando i principali argomenti elaborati dall’Agenzia Europea dell’Ambiente grazie al recupero di esemplari informazioni mai sistematizzate e diffuse, a partire dall’amianto e dal suo impatto su salute e ambiente: l’Agenzia ha ritrovato una relazione di Miss Lucy Dean, ispettore industriale del servizio sanitario di Sua Maestà, che, nel 1898, visitando una fabbrica di lavorazione dell’Asbesto, ne analizzò al microscopio le polveri minerali riscontrando effetti dannosi alla salute secondo lei prevedibili.
L’amianto diviene fuori legge in Inghilterra e in Europa cento anni dopo: ancora oggi nel Regno Unito muoiono 3.000 persone all’anno per amianto, mentre si stimano, in Europa nei prossimi 35 anni, 400.000 morti per passate esposizioni all’amianto. Riflettendo su analoghe vicende, Albert Schweitzer, persona di cui si è un po’ persa la memoria, ma che molto ha fatto per l’Umanità più disperata di questo Pianeta, già negli anni ‘40 diceva: «l’uomo ha perso la capacità di prevedere, di prevenire e certamente finirà col distruggere la Terra».
Gli early warning: una lunga storia di allarmi disattesi
Nel suo Rapporto, l’Agenzia sintetizza anche le ultime lezioni da allarmi precoci, studiando i casi, oltrechè della mucca pazza (BSE), dei PCB, degli ormoni della crescita, dei CFC, delle radiazioni, dell’MTBE, degli antibiotici nella alimentazione animale, per ogni caso valutando quando venne dato il primo “early warning” (anche su un giornale, non necessariamente in letteratura scientifica), le azioni o inazioni susseguenti all’early warning stesso, costi e benefici delle azioni e delle inazioni e le raccomandazioni che si possono trarre da tali considerazioni.
Consapevole della priorità dell’interfaccia “ambiente/salute”, l’Agenzia evidenzia il rischio associato a tre categorie di sostanze: organismi geneticamente modificati, “chemicals” (la “sporca dozzina”, il cui carattere non previsto e studiato è la persistenza) e i cosiddetti “disruptors” endocrini (tutto ciò che va a colpire la dotazione biologica a partire dall’impatto di sostanze sintetiche sulle capacità riproduttive).
A volte risulta necessario un monitoraggio a lungo termine, come per i CFC, i PCB, le radiazioni, casi di early warnings immediatamente sottovalutati, se non cancellati dagli stessi produttori delle sostanze diffondendo falsi assunti, anche riportati sulle etichette dei prodotti.
Altro luogo comune dimostratosi inconsistente è che i PCB potessero ritenersi totalmente confinati nei trasformatori, in cui fungono da dielettrico, o in prossimità degli impianti di produzione, quando oggi lo si trova ovunque, come accadde per il DDT, rinvenuto nel grasso delle urie e delle procellarie al Polo Nord, così distante dalle aree di produzione e consumo della molecola, caso grazie al quale si compresero i meccanismi di accumulo biologico di inquinanti lungo le catene alimentari, regolandone infine la pratica di scarico/diluizione nell’ambiente.
Altro luogo comune sconfitto è che gli ormoni della crescita non potessero avere effetti al di fuori dei coltivi in cui venivano usati: già negli anni ‘70, dalla zona floricola fra Pistoia e Pescia, nonché dal distretto delle colture protette di Vittoria, arrivavano segnalazioni di topi e altri animali di dimensioni inconsuete e alla fine riconducibili al contatto con quegli ormoni, così come di malattie degenerative dovute all’uso massiccio di presidi chimici e fitosanitari.
È nella responsabilità dei professionisti dei controlli ambientali analizzare lo scenario peggiore (“worst case”), studiando ciclo di vita del prodotto in esame e suo destino finale, distinguendo rischio, incertezza, ignoranza, evitando luoghi comuni e il ricorso ad una unica fonte, mettendo intorno al tavolo multidisciplinare tutti gli esperti potenzialmente interessati, dai medici ai veterinari, dagli ingegneri ai chimici.
Ciò non significa non tenere conto degli specialismi, ma indurli a relazionarsi con la percezione di ispettori industriali, lavoratori, medici locali, residenti relativamente ad un fenomeno, per evitare che, solo molto tempo dopo, venga accertato ed accettato come tema esistente, fino ad interessare il normatore.
Non si dimentichi il caso di John Dennis, un giornalista di New York, che documentava i primi effetti nocivi delle radiazioni X già qualche anno dopo la loro scoperta, nel 1895; ancora oggi il Servizio Sanitario Inglese misura come eccedente di oltre il 25% l’uso che oggi si fa in medicina di radiazioni X. Il caso oggi forse più evidente al riguardo è quello dei sarcomi delle parti molli che Gloria Costani Rabitti, medico di base a Mantova, ha riscontrato in una popolazione soggetta alla ricaduta dei fumi di alcune importanti sorgenti (petrolchimico, impianto di incenerimento ecc.).
Se si è corpo di regolazione e di controllo occorre mantenere la distanza (terzietà, garanzia di trasparenza) dalle parti interessate: gli effetti del benzene sul sistema osseo (1897), gli effetti dell’amianto (1898), gli effetti negativi dei PCB sui lavoratori (negli anni ‘30), del CVM, sono stati riscontrati come noti all’industria interessata e, a volte, anche del normatore. Se i costi associati all’azione precauzionale crescono ad un ritmo diverso e più alto dell’azione stessa e dei suoi effetti si dice che si è superato il “precautionary principle” per arrivare ad adottare il “proportionality principle”, mantenendo consapevolezza che all’interfaccia tra scienza e politica si deve cambiare paradigma, da quello “fatti consistenti – valori deboli”, a quello “deboli fatti/deboli segnali scientifici – forti valori pubblici”.
Nell’ipotesi di non esclusione d’impatti irreversibili bisogna operare prima di averne la prova, riducendo comunque le aggressioni all’ambiente, promuovendo la eco-efficienza e dunque la produzione più pulita, incoraggiando la convergenza e la integrazione di tematismi ambientali nei principali “drivers” dello sviluppo (industria, agricoltura, energia, trasporti, turismo), come postulato dal V° Programma di Azione “Verso la sostenibilità” dell’UE, associando alla tutela ambientale i temi della innovazione, della competitività, dell’occupazione.
Fonte: valori
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