Una Cosm-etica vista da un sociologo

Excursus
L’intenzione non è quella della trattazione scientifica né tecnico-merceologica del tema di una fattibile cosm-etica ma quella di esprimere una visione che riunisce imprenditori, investimento, modi in cui fluisce lo spettacolo dell’informazione, e si fissa l’agenda dell’immaginario collettivo e l’impegno nei cambiamenti nelle modalità con cui nelle società si costruiscono nuovi sensi, in questo
caso attorno alla cosmetica, senza però fare una trattazione di ogni aspetto.
Vi è un assunto all’origine che condiziona la delucidazione di qualsiasi tema: il soggetto – di cui l’esposizione è un attributo.
Il primo assunto, dunque, è il relatore, generatore di ogni apertura o intesa, come di qualsiasi disaccordo. La comunicazione, infatti, è un processo che va oltre le tecniche del convincimento. La comunicazione è comunione di ciò che si condivide, unione attorno ad una ragione, una ratio, una proporzione. La qualità della comunicazione inerente ad un argomento è perfezionabile dalle tecniche utilizzate, ma se l’interlocutore non condivide la ragione di cui il relatore si fa portatore, rimane improbabile che l’interlocutore comprenda, prenda con sé, il messaggio.
Il relatore di un tema è il primo portatore di interessi, di consapevolezza e anche di inconsapevolezza. Il relatore costituisce il primo limite dell’esposizione e corre il rischio di essere indotto nella tentazione di scambiare le sue parole per verità condivisa e/o condivisibile da tutti, dimenticando la regola relativa alla verità: la verità – o condivisione di una proposizione – si fonda su una convenzione. Platone, infatti, ha insegnato agli occidentali che la ragione costituisce una tecnica di contenimento, un impianto di regole necessario per arginare la follia in cui abitiamo e per produrre un discorso, che possa essere messo in comune.
Da questo punto di vista la comunicazione costruisce una delimitazione di interessi comuni e di una comprensione di ciò che non si condivide. La ragione, invero, è una forma di vita in grado di permettere una convivenza, ma come accade che non tutti condividano una stessa ragione, vi sono molteplici forme di coesistenza e di incompatibilità. Da questo excursus si desume che in
questa digressione circa una cosm-etica non si tratta di verità, intesa come nelle società di regime, ma di regole, di convenzioni. Innanzitutto si esprime un soggetto che narra la sua visione circa ciò che potrebbe essere una cosm-etica, declinando ogni definizione predicativa. La questione e la mia visione: cosm-etica come prodotto e come la minima maschera.
Prima delle norme relative al controllo qualità, riguardanti piuttosto regole di processo, ogni prodotto è espressione dell’identità delle persone coinvolte nella filiera di attività che porta dall’idea di produrlo alla sua immissione nel mercato. Questa qualità inerente il lato umano e culturale della transazione, di solito, viene esaminata poco. Infatti, se essa viene illuminata, si rischia che si svelino degli inconvenienti. Farsi conoscere per nome e cognome nel mercato è un’arma a doppio taglio. La denominazione “ragione sociale” forse ne documenta questo atteggiamento.
I marchi tendono a separarsi dai cognomi. I prodotti nei mercati, di solito, sono presenti come predicati. Siamo in un mercato dove il consumo è indirizzato facendo, preferibilmente, leva sui desideri indotti. Un mercato saturo, dove le “reali necessità” sono tecnicamente rimosse – mercato dove soltanto un’intellighenzia è in grado di ipotizzare che i bisogni sostanziali rimossi possono ritornare sotto forma di depressioni e di altri fenomeni morbosi. Siamo sostanzialmente un mercato dello sfruttamento della seduzione.
Il mercato della cosmetica fa uso di questa alienazione, quasi che non si possa avvicinare la questione dei prodotti per la cura della pelle senza farne uso. E se il tentativo dell’offerente, invece di puntare verso una transazione razionale, è quello dell’assoggettamento dell’acquirente, tale dominio, secondo l’ipotesi di una certa classe intellettuale, comporta privare il “cliente” dal suo rapporto con se stesso.
Buona parte della cosmetica sul mercato viene abbrutita per via di queste pratiche di agenzia. A buona parte della cosmetica in mercato, appunto, viene attribuita la funzione della maschera. Utilizzare però la maschera fuori dalla scena priva l’attore di tornare a sé. I rapporti vissuti sotto il velo della maschera sono relazioni chimeriche e lasciano nella persona, a quanto risulta a diverse scuole analitiche, un senso di vuoto. Tutto ciò riguarda il discorso della cosmetica ma nel mondo ad informazione limitata e dello spettacolo dell’informazione parlare di ciò che le convenzioni della seduzione occulterebbero risulta sconveniente. Una cosa è documentabile: L’utilizzo della seduzione permette l’assedio della razionalità, prima difesa umana e, conseguentemente, prima resistenza ad essere abbattuta da proposte senza scrupoli.
Il consumo consapevole, come la cura consapevole, è un atto difficile. Comporta avere a disposizione informazione razionale intenta a liberare l’acquirente e non ad avvolgerlo nella seduzione. Implica anche la capacità dell’acquirente di riconoscere le proprie sostanziali necessità, di rieducare il suo senso di sé, della estetica e delle relazioni con gli altri. L’esistenza di queste condizioni comporterebbe però un passo più radicale dell’essere umano: l’accettazione del rapporto con sé stesso, qualcosa che si dà per scontato ma che in realtà costituisce una fatica, come quella compiuta dal mitologico Ercole.
La cosmetica ha infatti una funzione molto importante nelle culture per curare e conservare la salute della pelle e migliorare l’aspetto e l’odore delle persone. Nella cultura occidentale prevale oggi il suo utilizzo per simulare giovinezza ed eccitare la sessualità. Utilizzata in forme particolare di make-up, essa si avvicina alle maschera della ritualità religiosa della gestione del sacro o del nume, formando parte degli artifici per rapportarci con il tremendo che ci abita, come ci viene rappresentato nel teatro. In ogni caso, la cosmetica ha una funzione di mediazione tra sé e gli altri e con sé stessi. Essa ci assiste nell’affacciarci a noi stessi, nel presentare la propria esistenza ed angoscia nella scena della vita sia pubblica che privata.
Questa sua funzione di maschera consente di avanzare svariate ipotesi in un continuum che va da considerare la cosmetica come artificio culturale che consente al singolo di accompagnarsi nell’elaborazione della propria personalità o vestepubblica, offrendogli quel velo necessario a proteggere le pieghe che egli sottrae alla condivisione con gli altri, a considerare la cosmetica lo strumento mediante il quale l’identità mortificata va protetta.
Ugualmente, come nell’espletare la sua funzione estetica e/o di maschera, nel compiere l’atto di cura della pelle, la cosmetica percorre un continuum: da elemento innocuo e rigenerante, che accetta il passo del tempo, a elemento nocivo ma che trattiene i segni del tempo e del vivere, cancellando ogni testimonianza di sé scrittasi sulla propria pelle e depositatasi nel proprio odore.
Con questi paragrafi di qualificazione intendo dare una collocazione ad una possibile cosm-etica, lasciando ad altri esperti i loro commenti circa le qualità che una tale cosm-etica possa vantare, quali, prodotto biologico a consistenza naturale al 100%, implementazione di processi di lavorazione eco-sostenibili, nobiltà della missione del soggetto produttore e quanto costituisce il suo concetto.
Alla mia prospettiva intellettuale importa invece la domanda: – chi può interessarsi ad una linea cosm-etica intesa come mediazione nell’affacciarci a noi stessi, nel presentare la propria esistenza ed angoscia nella scena della vita, sia pubblica che privata? Chi si interessa alla cura della pelle non come una cover ma come un organo sostanziale all’unità e totalità che siamo? Quali soggetti sociali e individuali serve un tale prodotto?
Una cosm-etica comporta atteggiamenti, rapporti sociali che superano l’etica del consumo in termini di eco-sostenibilità, di non sfruttamento dell’ambiente, delle persone e degli animali e non si limita ad un gesto di auto-determinazione, declinabile in auto-trascuratezza estetica e/o cosmetica per coloro che rifiutano le convenzioni.
Il suo stimatore sarà forse un integralista naturalista ma anche colui a cui è capitato di intrattenere rapporti con se stesso e preferisce risalire senza grosse difficoltà ai sentori della propria identità dermica, umorale, psicologica, culturale.
Certamente, costituisce un supporto al terapeuta, un bene da offrire da parte del farmacista e anche un consiglio utile in tasca alle figure che oggi sostituiscono i preti nell’orientamento spirituale alle persone. Infatti, costituisce un ottimale strumento di auto-educazione e auto-osservazione per la sua qualità di maschera minima o quasi non-maschera.
Una cosm-etica che si presenta in una datata scatola blu jazz, evocante una nostalgia del sé, richiede, per essere compresa, qualcosa in più di fissare l’attenzione su Good Manufacturing Practices, certificazioni, compatibilità con il trattamento omeopatico. Richiede andare oltre l’esaltazione delle sue virtù. Esige che gli elementi culturali che ostacolano la sua proposta etica ed estetica vengano affrontati.
Una tale cosm-etica va cantata in maniera leggermente calante in modo che i fondamenti oggettivi e razionali che la costituiscono diventino nel tempo un’educazione, un’etica, un’estetica, una cura di sé. Solo allora i difetti che le convenzioni attribuiscono alla natura dei prodotti di una cosm-etica, potranno diventare i loro pregi.
Fuori da questo riferimento sociologico, occuparsi di una cosm-etica prendendo a modello la narrazione dell’omologazione convenzionale, significa misconoscere le caratteristiche reali di ciò che dovrebbe essere etico riguardo tale prodotto.
Una cosm-etica, in una datata scatola blu notte, probabilmente ci imbarazza. Forse ci evoca quell’appuntamento fecondantemente triste con noi stessi, con la nostra pelle e nudità al di qua delle nostre fantasie, quel contatto che ci suggerisce di accettarci come siamo.
Forse perciò a quasi tutti sembra più facile esaltarne le virtù quasi miracolose, tornare a rincorrere le chimere, afferrarci ai giudizi delle convenzioni, ingannare l’etica e l’estetica inerenti a una cosm-etica, invece di spendere quel sforzo verso un passo essenziale dell’equilibrio: accettare il rapporto con se stessi.

Cosm-etica e civilizzazione
In precedenza, quando tratto “La questione e la mia visione: una cosm-etica come prodotto e come maschera minima”, ho fatto uso dell’enunciato sociologico “ogni prodotto è una materializzazione di rapporti sociali”, postulando che ogni prodotto è espressione delle persone coinvolte nella filiera di attività che porta dall’idea di produrlo alla sua immissione nel mercato. Molte scuole di pensiero considerano il mercato come la ricerca del profitto. Il guadagno però non esaurisce tutto il fenomeno dell’economia né delle dichiarazioni di redditi di coloro che formano parte della filiera del prodotto.
Togliendoci certi paraocchi si potrebbe sospettare che vi sia anche ben oltre dietro l’affanno degli imprenditori. Se si sopravvive per essere riconosciuti o se l’essere riconosciuti sia un’istanza della sopravvivenza, rimane una variabile che i filosofi dell’economia studiano da sempre.
Negare questo eventuale insondabile sfondo comporta rinunciare a comprendere meglio il fenomeno del denaro, e di conseguenza, il fenomeno dei prodotti – e, ahimè, anche della salute e la malattia. Un tale disinteresse comporta un diniego di responsabilità risolto con un semplice 2 meno 2 fa zero. Comporta anche la rinuncia ad essere soggetto civilizzato e civilizzante. Il non vedere oltre, accomoda nella categoria “consumatore”.
Si tratta di una situazione simile a quanto accade nel mondo della medicina, se non vi è un secondo pensiero più comprensivo del fenomeno morboso – si applicano i protocolli meno costosi.
Non mi sono perso. Un cosm-etica, come tutti i prodotti giudicati dal punto di vista della formazione della coscienza cognitiva ed etica, rientrano o nella civiltà o nella barbarie, qualora si voglia fare una passeggiata nel mondo dei prodotti visti al di la della cosa o della reificazione, qualificando il loro contributo o meno all’evoluzione razionale dell’umanità. A me, in qualità di sociologo, non compete il giudizio né scientifico, quanto meno clinico di una cosm-etica. Parlo nell’ambito di quanto mi riguarda come sapere, lasciando da parte il fatto che da uomo razionale che si è trovato con l’offerta della cosmetica Inlight della CEMON Homeopathics, mi sia trovato soddisfatto con la MATERIA al di là della sua narrazione. Esula delle mie possibilità essere testimonial. Vanto soltanto un umile riconoscimento come poeta – senza interventi di raccomandazioni ma come barbaro dinnanzi ad una giuria di personalità della classe letteraria italiana.
Lascio anche da parte interessarmi alla fenomenologia della filiera in termini “ontologici” perché, evidentemente, una tale operazione non riesce. Semmai mi sto cimentando in una sorta di metafisica sociologica di una possibile cosm-etica, sentendomi felice che mi si dia uno spazio in BIO per far conoscere il mio pensiero ai mediatori della classe medica di un tale concetto.
Fuori dal contesto degli investimenti delle multinazionali, di una linea non convenzionale per la cura della pelle, praticamente “artigianale” o a dimensione d’uomo, voi, informatori scientifici, terapeuti e farmacisti, siete mediatori perché avete la facoltà di consigliare.
Purtroppo opressi dai protocolli e, a volte, anche dai luoghi comuni, ci si limita a presentazioni, interpretazioni e consumi tautologici dei prodotti. Si trascurano domande del tipo: con la mia scelta, per chi voto, che tipo di economia sviluppo, che significati di civiltà o barbarie aggiungo nel consenso o nel conflitto sociale?
La classe medica, di solito, pensa a se stessa in termini “scientifici”, dimenticando che scienza è un insieme di proposizioni esatte che danno conto dello svolgersi di un fenomeno come anticipato dalle ipotesi e che i dati sperimentali sono conferma dell’epistemologia dell’osservatore.
L’imprenditore, dal canto suo, per primo, e nel suo affanno per la “qualità”, aliena altre possibilità di lettura del prodotto.
Mi affligge la visione dei prodotti abbandonati sulla sponda della GMP o alla deriva dei prezzi.
L’etica scappa alla predica. Essa nasce da un riconoscimento del fenomeno delle eccedenze e delle mancanze. L’etica costituisce una risposta razionale allo squilibrio che minaccerebbe la vita comune. La società dei consumi è società dei consumi a connotazione negativa perché ancora ho molto da imparare dalla fenomenologia dei prodotti e dalla filosofia postmoderna.
Come sociologo e poeta riconosco la funzione della maschera nella civiltà e nella barbarie, essa sembra imprescindibile al compimento di ogni relazione umana.
Riconosco che vivendo in società si forma parte anche di un cammino collettivo e che l’auto-determinazione appartiene all’umano. Se l’uomo è linguaggio e il linguaggio esprime valori, sia nell’auto-determinazione che nella convivenza, e se si è sani, si tende alla coerenza. “Il sociologo neutrale” è un’asserzione, come asserzioni sono: “medico scientifico”, “tecnico”, “medico non convenzionale”.
Da uomo e cittadino, ringrazio la presenza nel mercato di una possibile cosm-etica, in quanto, pur pensata ancora piuttosto al femminile, fornendomi le prestazioni che i mie valori accettano nella cura della mia pelle, contribuisce a bilanciare l’odore della mia esistenza, offrendomi quella maschera sottile necessaria alla conservazione e alla convivenza civile demistificata con la quale posso garantirmi rapporti meno chimerici con gli altri e il ritorno alla mia Itaca, la mia identità. Ringrazio anche, nella sua declinazione Inlight, quel suo frammento di datato tempo blu jazz.

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