Le centrali a carbone “rischiano” di farla franca

Bruciando assieme al carbone una quota di legname si possono abbassare le emissioni di biossido di carbonio. In questo modo alcune aziende negli Stati Uniti possono perfino riuscire a far passare i vecchi impianti in categoria “rinnovabili”. E la transizione energetica potrebbe allontanarsi“.

Il dito degli ambientalisti è da tempo puntato verso le centrali a carbone, vere e proprie “bombe ecologiche” per il Pianeta. Più di recente anche alcune istituzioni hanno dato l’impressione di volersi muovere in modo più concreto rispetto al passato: in Europa c’è stato lo stop della Banca per gli Investimenti (BEI) ai finanziamenti alle produzioni di energia che emettono quantitativi troppo elevati di CO2; negli Usa la Environmental
Protection Agency (EPA) ha chiesto ufficialmente ai gestori delle centrali di ridurre le emissioni. Eppure gli impianti in assoluto più inquinanti al mondo potrebbero essere “salvati” in extremis.

Almeno in linea teorica. Potrebbe bastare, infatti, bruciare insieme al carbone una quota di legno per abbassare i livelli di biossido di carbonio. E per quanto non sia detto che ciò basti per scendere sotto ai tetti massimi indicati dalla Bei, negli Stati Uniti l’escamotage potrebbe “salvare” decine e decine di vecchi impianti.

A rivelarlo è stato il New York Times, che ha citato l’esempio della Minnesota Power, azienda che, proprio grazie a questo stratagemma, è riuscita addirittura a far passare parte di un vecchio impianto in categoria “rinnovabili” (dal momento che il legno utilizzato può essere recuperato da rifiuti o da scarti industriali).
«Abbiamo ottenuto un effetto benefico dal punto di vista delle emissioni, così come da quello economico», ha dichiarato al quotidiano statunitense Allan Rudeck, presidente della compagnia. Il tutto grazie a un approccio a dir poco perfettibile, da parte degli Stati Uniti.

Un regalo alle grandi corporation
L’EPA considera come zero-carbon perfino l’utilizzo di legnami provenienti dal disboscamento. Il ragionamento, ultra-semplicistico, è che gli alberi possono essere ripiantati: in questo senso, si tratterebbe di fonti rinnovabili. Un argomento che, ovviamente, è finito immediatamente nel mirino degli ambientalisti, che sottolineano come la deforestazione sia una delle principali cause dell’aumento della CO2 presente nell’atmosfera.

Inoltre, sottolinea Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia, anche nelle centrali a carbone di ultima generazione «la quantità di biomassa che può essere immessa in co-combustione è una frazione di pochi punti percentuali, in termini energetici, rispetto al totale. Ma costituisce una quantità importante in termini assoluti», dal momento che spesso si tratta di grandi impianti. Enormi quantità di legna, insomma, per risultati magri dal punto di vista ecologico. Il gioco, insomma, non vale la candela, anche perché bisogna tenere conto del costo – anche ambientale – che occorre sostenere per spostare quantità significative di biomasse fino a ciascun impianto. A conti fatti «un kWh di energia prodotto a carbone dagli impianti più moderni comporta un’emissione di circa 800 grammi di CO2. Bruciando insieme legno e carbone si può scendere del 5%. Mentre gli impianti a gas più nuovi inquinano meno della metà», aggiunge Onufrio.

«Tenendo conto del fatto che gli Usa tendono a puntare a un sistema centralizzato fatto di grandi impianti, pur nella prospettiva di una riduzione della CO2, la soluzione è congeniale agli interessi delle grandi corporation, che vogliono mantenere inalterate le centrali e la rete», gli fa eco Mario Agostinelli, presidente dell’Associazione Energia Felice. Senza contare i problemi logistici che potrebbero presentarsi a causa della cocombustione: dal rischio di ottenere basse rese a quello di andare incontro a guasti negli impianti, fino alla necessità di conservare in modo adeguato la “materia viva” (il legno, appunto).

Una scelta strategica, dunque, che punta a ritardare di fatto la transizione verso le rinnovabili. Queste ultime, infatti, «vogliono essere mantenute marginali per non obbligare a riprogettare su base locale e territoriale l’intero sistema», accusa ancora Agostinelli. L’ennesimo colpo di coda della potente lobby industriale.

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