Molte pessime abitudini alimentari dell’Occidente ricco contagiano i Paesi in via di sviluppo, terra di conquista per le multinazionali del food and beverage ipercalorico. E così al dramma della fame si aggiunge l’obesità killer.
Globesity è una formula giornalistica, ma sintetizza con efficacia la relazione tra globalizzazione delle transazioni finanziarie e commerciali sul cibo e diffusione dell’obesità che ne deriva. Perché l’obesità oggi ispira campagne internazionali di contrasto, riuscendo drammaticamente a convivere, spesso nello stesso Paese, con fame e malnutrizione. Dall’obesità deriva un innalzamento dei tassi di diabete, e soprattutto il rischio di malattie cardiache e ictus (13 milioni di morti l’anno), primo nemico dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
E intanto, mentre gli Stati Uniti – terra d’origine dei fast food e sede di gran parte delle dieci corporations leader nella produzione di cibi e bevande ipercaloriche (PepsiCo vende più di 10 miliardi di dollari di patatine fritte l’anno) – hanno visto dal 2009 al 2012 una tendenza
alla stabilizzazione dei tassi di obesità, altrove il fenomeno è in espansione.
Stati Uniti oversize
A guardare i dati dei Centers for Disease Control and Prevention (CDCP) – organismi di controllo e prevenzione sanitaria – il quadro americano descrive una crescita della percentuale di bambini obesi tra 6 e 11 anni, passata dal 7% del 1980 a quasi il 18% nel 2012; e quella dei ragazzi (12-19 anni) dal 5% a quasi il 21%. In pratica nel 2012 più di un terzo dei bambini e degli adolescenti americani era in sovrappeso o obeso, circa il doppio del 1995. Ben il 31,8% degli adulti statunitensi è ormai considerato clinicamente obeso, cioè oltre la soglia dell’indice di massa corporea fissata dall’Oms a 30 (un indice medio corretto è intorno al 21,5), e la questione non riguarda solo la salute: all’aumento dell’obesità corrisponde meno produttività e costi superiori di assicurazione sanitaria, calcolati a livello mondiale (FAO 2013) in 3.500 miliardi di dollari l’anno (circa il 5% del Pil globale).
Ecco quindi il perché delle campagne in cui la first lady Michelle Obama promuove l’attività fisica tra i giovani, e i motivi per cui l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg pose un divieto di vendita ai formati troppo grandi di bibite, o l’amministrazione di San Francisco fece guerra all’Happy Meal di McDonald. Iniziative limitate, che però hanno contribuito a orientare diversamente l’opinione pubblica. Di contro la corazzata dei ristoranti fast food americani, secondo il rapporto Fast Food Facts 2013, ha speso ancora 4,6 miliardi di dollari in pubblicità rivolta ai minori nel 2012 (+54% di pasti per bambini tra il 2010 e il 2013). Eppure qualche lieve rallentamento dei profitto in patria comincia a vedersi. Da qui la volontà di caccia a nuovi – e magari meno informati – consumatori, che si mostra con un allargamento del mercato sul piano globale, reso evidente da alcuni dati dello US Census Bureau: l’America ha esportato 1,47 milioni di tonnellate di fruttosio nel 2012 (+1450% rispetto al 1995), sostanza base per gran parte del cosiddetto junk food o cibo-spazzatura, meno costosa dello zucchero e capace di dare minor senso di sazietà.
Export di cattive abitudini
E così tra le prime vittime dell’obesità c’è oggi, ad esempio, il vicino Messico – candidato da molti a un futuro di crescita luminosa –, con addirittura il 32,8% di adulti obesi. Un dato attuale la cui origine sarebbe legata per alcuni analisti al 1996, con l’entrata in vigore del famoso NAFTA (l’accordo nordamericano per il libero scambio stretto con USA e Canada), che portò all’aumento di oltre il 1200% delle importazioni di fruttosio (high-fructose corn syrup) dagli USA. Un boom cui il Messico ha cercato di porre il freno tassando le bevande ad alto contenuto calorico, ma l’appello dei raffinatori americani di mais (da cui si ricava il fruttosio) all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) avrebbe bloccato l’iniziativa.
Il dito puntato dei Paesi che “ingrassano” è perciò sempre più diretto verso bibite gassate, dolci, snack e “i luoghi di spaccio” per antonomasia di molti di questi alimenti: i fast food. Per senso comune, naturalmente, ma anche perché uno studio dell’University of East Anglia (UEA) e del Centre for Diet and Activity Research (CEDAR) ci dice che i bambini che vivono in aree circondate da ristoranti del genere hanno più probabilità di essere in sovrappeso o obesi. Nel mondo il numero di adulti obesi o in sovrappeso è salito a 1,5 miliardi, la grande maggioranza dei quali si trova nei Paesi in via di sviluppo.
La Cina si sta accorgendo del problema solo di recente: se nel 2003 il 27,8% dei bambini superava le linee guida dell’Oms per gli standard di peso, oggi sarebbe oltre il 10% della popolazione cinese a risultare obeso; in India un quarto delle donne che abitano nelle città sono in sovrappeso o obese, rispetto a meno di una su 10 tra quelle che stanno nelle zone rurali. E per concludere coi bambini, nel 2010 quelli stimati in sovrappeso e obesi nei Paesi in via di sviluppo erano 35 milioni; circa 8 milioni quelli nei cosiddetti “Paesi ricchi”; mentre in Africa ad avere questo problema è già l’8,5% dei più piccoli, contro una media mondiale intorno al 6,7%.!
05/10/2015
La cattiva lezione del benessere
Fonte: Valori (Rivista)





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