24/08/2010
Diversificare e allarmare. Big Pharma cerca nuove vie per il profitto
Fonte: Valori (Rivista)
La riforma sanitaria degli Stati Uniti e la crisi economica mondiale sono questioni secondarie. Potrà sembrare strano, ma per i colossi dell’industria farmaceutica i problemi sono altri. In cima ai pensieri di Andrew Witty - amministratore delegato di GlaxoSmithKline - non ci sono infatti né Barack Obama, né la Grecia indebitata. A far tremare i vertici di “Big Pharma” sono le lancette degli orologi. Che avvicinano sempre più alla scadenza dei brevetti di alcuni tra i medicinali che hanno garantito gran parte dei profitti negli ultimi decenni. Fazzoletto alla mano, i giganti di tutti il mondo dovranno dire addio a numerose galline dalle uova d’oro: farmaci blockbuster, la cui produzione non sarà (in alcuni casi non è già) più esclusiva di un solo marchio.
Qualche esempio: a giugno sarà “liberato” l’antitrombotico Clexane, che nel solo 2008 è valso alla Sanofi-Aventis un fatturato di 45,66 milioni di euro; a ottobre sarà la volta del Nebilox, che per la GSK è equivalso a 15,37 milioni; a giugno del 2011 scadrà il brevetto del Levoxacin, prodotto anch’esso da GSK (44,06 milioni); a novembre del 2012, ancora, AstraZeneca non avrà più l’esclusiva sull’anticolesterolico Crestor e sui relativi 65,28 milioni. E così via, per un vero e proprio terremoto, annunciato da tempo, ma che non ha mancato di far sentire le proprie scosse. Rimedi? Dal momento che, come è noto, per Big Pharma contano esclusivamente i margini di profitto - come per tutte le altre aziende, nonostante in questo caso si tratti di farmaci, e quindi ne vada della salute dell’umanità intera - le possibili strade sono due: scoprire e lanciare sul mercato (del Nord del mondo) altri medicinali blockbuster, coprendo gli onerosi costi della ricerca. Oppure, ancora, diversificare i business, puntando soprattutto al resto del mondo. Analizzando le politiche adottate negli ultimi tempi dalle grandi compagnie, sembra chiaro che la strada maestra sia quest’ultima. E, dal momento che spesso l’ingresso delle multinazionali occidentali nel Terzo mondo ha significato sfaceli, c’è molto di cui preoccuparsi.
Le strade per i colossi farmaceutici
Per anni Big Pharma ha vissuto grazie al connubio di prezzi alti e vendite di massa. Ora si tenta di ridisegnare il modello. Recentemente, il Financial Times ha indicato quattro possibilità al vaglio. Primo, diversificare le tipologie di prodotti, anche grazie all’uso di scienziati e ricercatori esterni. Secondo, espandersi nei mercati emergenti. Terzo, aumentare le vendite di prodotti liberi da brevetti. Quarto, sperimentare forme di flessibilità dei prezzi nei diversi Paesi. John Lechleiter, numero uno di Eli Lilly, ha sintetizzato il tutto nella formula: «Rilanciamo l’innovazione farmaceutica». In concreto, Merck ha chiesto la collaborazione di altre compagnie e del settore accademico. GSK ha rimesso tutta la ricerca sui farmaci anti-Aids nelle mani della ViiV Healthcare, una joint venture con Pfizer, al fine di condividere le esperienze e, soprattutto, i costi. AstraZeneca si sta gettando nel mercato dei biomedicinali con compagnie come CAT e Med-Immune. Roche ha acquistato Genentech, azienda specializzata nei prodotti biologici antitumorali.
Abbott ha preso il controllo della Solvay, compagnia molto presente nei mercati emergenti. E ancora Sanofi-Aventis ha comprato la Zentiva in Slovacchia, la Medley in Brasile e la Kendrick in Messico.
Pfizer ha rilevato le licenze dei medicinali prodotti da Aurobindo e Claris Life Sciences in India; stessa strategia per GSK con la Aspen in Sudafrica.
I dubbi del Wsj
Ma si tratta di una politica vincente? No, secondo un’analisi del Wall Street Journal. Nei Paesi emergenti, infatti, le spese sanitarie, sebbene in aumento negli ultimi anni, sono ancora molto inferiori a quelle delle nazioni più ricche: ad oggi, i due terzi della spesa sanitaria globale sono sostenuti da Usa ed Europa occidentale (sebbene al loro interno sia presente solo il 15% della popolazione mondiale). Inoltre nei mercati emergenti la spesa pubblica è inferiore al 50% (in India, addirittura, i cittadini provvedono alle proprie spese sanitarie per il 75%), mentre nel Nord del mondo è superiore al 70%. Il che significa che sarà impossibile ipotizzare vendite massicce. Già oggi, ad esempio, i margini operativi di GSK nei mercati emergenti sono del 36%, contro il 60 e 68% registrati negli Usa e in Europa. Allo stesso modo, AstraZeneca ricava il 25% in meno in Paesi come l’India.
Tradotto: se Big Pharma insisterà nell’espansione geografica, dovrà accontentarsi di business limitati. Cosa escogiterà quindi per compensare i mancati guadagni? Difficile immaginarlo. C’è solo da sperare che le conseguenze per le popolazioni non siano nefaste. Ciò che è certo è che Big Pharma, in attesa di tracciare i contorni del proprio futuro, si difende attaccando. A farne le spese sono i medicinali generici: la Commissione europea ha calcolato che la strategia contro i concorrenti low cost è costata alle casse dei Paesi membri dell’Ue fino a 3 miliardi di euro tra il 2000 e il 2007 in termini di mancati risparmi. E anche i privati cittadini sono sotto il fuoco di campagne allarmistiche su sindromi, pandemie, pestilenze e nuove patologie tese a convincerli della necessità di trasformarsi in voraci “farmacovori”. L’isteria collettiva per la recente influenza H1N1 ne è un buon esempio: i consumi di antivirali sono aumentati del 2500% in pochi mesi. Se queste sono le premesse…





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