25/10/2010
Agricoltura all’italiana
Fonte: Valori (Rivista)
Trattori che invadono le città, mucche che pascolano davanti a Montecitorio, pastori che sfilano dietro agli striscioni sotto lo sguardo sbigottito dei turisti a Porto Rotondo.
L’estate appena trascorsa ha portato nelle case degli italiani le immagini del disagio di chi cerca di produrre e vivere in campagna, ma si trova schiacciato in un meccanismo che tende a favorire i grandi produttori e le catene distributive e che, tramite una politica di prezzi bassissimi, scarsa programmazione e speculazione, tende ad alimentare gli sprechi e a penalizzare i piccoli e i medio piccoli. E con loro, spesso, anche le produzioni di qualità.
Un paradosso se consideriamo che le aziende agricole italiane sono in media di 7,6 ettari e l’84% circa non ne occupa più di 10 (dati Istat).
Il sistema degli incentivi elargiti dall’Ue, seppur indispensabile secondo molti, non semplifica le cose e, soprattutto, favorisce i più grandi. «In Italia il 19% degli agricoltori percepisce l’88% del valore del cosiddetto pagamento unico aziendale (l’incentivo proveniente dalla Politica agricola comune dopo la riforma del 2003, ndr)», spiega Alessandro Corsi, docente di Economia e politica agraria all’Università di Torino. La ratio è sollecitare i contadini a restare nelle campagne, che altrimenti si spopolerebbero.
Negli ultimi anni il sistema di aiuti, legato un tempo alla produzione, fonte di distorsioni e di eccedenze, è stato cambiato e quelli che erano sussidi sono stati trasformati in diritto a ricevere un sussidio.
Buone intenzioni, ma la distorsione non è stata corretta del tutto. Perché, spiega Corsi: «Resta il peso del passato. Questo pagamento è stato concesso, infatti, sulla base di quello che gli agricoltori ricevevano in un periodo di riferimento precedente (2000-2002, ndr). Ed è emerso che la politica di sostegno all’agricoltura premiava i grandi produttori, che ancora oggi continuano a fare la parte del leone».
Pochi euro per chi coltiva
Non tutti i problemi arrivano dall’Europa. Quello che suscita le maggiori lamentele da parte degli agricoltori riguarda i prezzi: quelli pagati dalla distribuzione o dai trasformatori sono tenuti bassissimi. E i contadini, che non hanno la forza né il coordinamento per contrattare, si trovano costretti ad accettare condizioni da fame.
Secondo Coldiretti il 60% del valore medio finale dei prodotti agricoli finisce alla grande distribuzione, il 23% all’industria, mentre solo il 17% resta al produttore.
I rincari dall’origine al dettaglio, sempre secondo l’associazione, si aggirano mediamente intorno al 600%. Tutto a scapito del consumatore e del produttore.
Un esempio ancora più eclatante, contenuto in uno studio di Coldiretti del 2005, è quello dell’ortofrutta trasformata. Il prezzo al dettaglio di un barattolo di passata di pomodoro è composto per l’8,6% dal costo del pomodoro, il 91,4% sono i costi di filiera.
Nell’ultimo decennio più di 500 mila imprese, anche sotto il peso di costi insostenibili, sono state costrette a chiudere.
Lasciare i frutti per terra
Qualche caso limite dello scarso potere degli agricoltori lo racconta Fernando Di Chio, agronomo che lavora principalmente nel Tavoliere delle Puglie.
«Significativo quello dei pomodori - spiega - quest’anno molti agricoltori li stanno lasciando nei campi perché non hanno convenienza a raccoglierli. La filiera li paga 40 centesimi al quintale, mentre all’agricoltore produrli costa 70 centesimi. Questo è possibile anche a causa di un raggiro: l’industriale dice di non avere abbastanza camion per il trasporto, il prodotto resta a deperire e poi viene acquistato sottocosto, perché è già stato raccolto ed è sempre meglio perdere 30 centesimi che perderne settanta. In più siamo in vista della riforma dell’Ocm (Organizzazione comune di mercato) ortofrutta, per cui i contributi futuri saranno calcolati sulla base della produzione di questi due anni e in molti sono costretti a vendere sottocosto per avere le fatture».
«In questo senso dai dati Istat emerge un aspetto fondamentale - spiega Luca Falasconi, del dipartimento di Economia agraria dell’Università di Bologna - ovvero che nei campi italiani ogni anno rimane una percentuale di produzione agricola del 3,5-4%. Un valore piuttosto basso e che potrebbe sembrare fisiologico. Se poi però andiamo a vedere il valore assoluto e stringiamo questo focus solo sulle produzioni ortofrutticole fresche, scopriamo che nei campi rimane una quantità di produzione che è quasi pari a quella che gli italiani consumano». Stiamo parlando di 8,4 milioni di tonnellate fra ortofrutta fresca e surgelata consumata dalle famiglie, nel 2009, contro 7,6 milioni di tonnellate rimaste a marcire in campo. Ci si potrebbe sfamare un’altra nazione.
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